Francesco, il bello di ricominciare

La lettera di Papa Francesco a mons. Rino Fisichella è uno squarcio di luce sul Giubileo straordinario della Misericordia. L'editoriale di SALVATORE ABBRUZZESE

La lettera di Papa Francesco a mons. Rino Fisichella è uno squarcio di luce sul Giubileo straordinario della Misericordia. Essa consente di comprendere l’ampiezza della posta in gioco e rivela, semmai ce ne fosse ancora bisogno, l’ampiezza del disegno pastorale di questo pontefice. 

Fin dall’inizio la misericordia è stata presente nei suoi testi scritti come nelle sue interviste e costituisce la cifra reale del suo pontificato. Ma in una società mediatica come la nostra, è abbastanza probabile che il messaggio pontificio rischi di essere percepito in tono minore, omologando la misericordia di Dio alle amnistie dei governi e banalizzando tutto nel contenitore della semplice retorica buonista. 

Si dimentica così abbastanza rapidamente come questa stessa misericordia implichi il pentimento. Ragione per la quale il giubileo della Misericordia non può non essere anche un giubileo della penitenza, del riconoscimento delle miserie personali e dei danni che hanno provocato. È allora necessario non limitarsi ai comunicati stampa o alle scontate riletture televisive per recuperare le parole effettive pronunciate dal Papa. 

Il Giubileo deve essere “un vero momento di incontro con la misericordia di Dio”, una “genuina esperienza”, perché Dio accoglie e perdona “dimenticando completamente il peccato commesso”. Siamo all’antitesi di qualsiasi volontà di produrre l’evento mediatico: tutto si gioca sul registro della vita interiore. È il cuore che conta, è la ricerca ed il desiderio di essere perdonati per il male commesso a valere; sono in gioco le incapacità, le indifferenze e le viltà, piccole e grandi: quelle che hanno fatto male agli altri e costituiscono il nostro peccato.

Se è il cuore che conta, allora è il desiderio di riconciliazione ad emergere. Proprio per questo non è necessario andare a Roma, basta compiere un “breve pellegrinaggio” verso la Porta Santa presente nella cattedrale della propria diocesi o nelle chiese stabilite dal Vescovo. Proprio per questo, non solo le sedi locali, ma anche le case nelle quali i malati e gli esiliati sono relegati, possono essere visitate dall’abbraccio del Padre, basta comunicarsi e partecipare “alla santa Messa e alla preghiera comunitaria, anche attraverso i vari mezzi di comunicazione”. Anche la cappella del carcere può essere la Porta Santa dalla quale inizia il ritorno. Ed è il caso per tutte quelle persone che “pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto”. Per costoro, la stessa porta della cella, se attraversata “rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre”, diventa la Porta Santa: “Perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”.

Se è il cuore che conta allora anche i defunti vanno abbracciati perché la Chiesa, per dirla con Péguy, è la “città armoniosa”, dove risiedono anche quelli che non ci sono più. “A loro siamo legati per la testimonianza di fede e carità che ci hanno lasciato”. Per loro si può pregare affinché “il volto misericordioso del Padre… possa stringerli a sé nella beatitudine che non ha fine”. 

Ma non basta. Papa Francesco chiama i fatti con il loro nome, attaccando la “mentalità molto diffusa” che ha fatto perdere ogni “sensibilità personale e sociale” verso la nuova vita, facendo dell’aborto un semplice incidente di percorso. Nel mondo di quante hanno abortito, il pastore Francesco va a riprendersi quelle che hanno vissuto questo momento “come una sconfitta”, anche se hanno ritenuto di “non avere altra strada da percorrere”. Papa Francesco si erge qui a testimone con tutta l’autorevolezza della sua età e della sua esperienza: “So che è un dramma esistenziale e morale. Ho incontrato tante donne che portavano nel loro cuore la cicatrice per questa scelta sofferta e dolorosa. Ciò che è avvenuto è profondamente ingiusto; eppure … il perdono di Dio a chiunque è pentito non può essere negato”. Quella stessa confessione che prima poteva essere fatta solo al Vescovo, per l’anno della Misericordia può essere adesso raccolta da ogni sacerdote. Dovunque c’è un ministro di Dio e c’è il dolore per il male compiuto, lì si ricomincia. Si tratta di riprendere un “percorso di conversione” per non ridurre la statura del “vero e generoso perdono del Padre che tutto rinnova con la sua presenza”.

La misericordia è allora riconoscimento di un legame, un legame che lega anche a quanti frequentano “per diversi motivi” le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità di San Pio X. E questo perché “questo anno giubilare della misericordia non esclude nessuno”. Anche lì Dio accoglie e perdona: anche i sacerdoti della Fraternità sono strumento efficace del perdono di Dio.

Il cammino passa per il riconoscimento dei mali compiuti e per il desiderio di essere perdonati. Proprio per questo un tale desiderio è inevitabilmente collegato al pentimento ed alla volontà di ritorno alla casa del Padre. È la religione ripresa nel suo gesto primario: la volontà di tornare da Lui, consapevoli di tutto quello che si è perso e di tutta l’innocenza sprecata. È la religione del nuovo inizio, con una veste nuova, verso un Padre che non ha mai smesso di riconoscerci e di aspettarci.

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