Sono trascorsi sette anni dal crollo di Lehman Brothers, il momento indicato come l’inizio della grande crisi, che ancora si fa sentire e che obbliga a superare certi cliché sul ruolo dello Stato, idee che sono state coniate negli anni ’80 e ’90. Negli anni immediatamente precedenti e successivi alla caduta del comunismo, sembrava opportuno utilizzare l’espressione “più società meno Stato” per difendere il protagonismo dei corpi intermedi. Era una formula che sintetizzava il principio di sussidiarietà, nato con la Dottrina sociale della Chiesa. L’interpretazione liberale che è stata fatta di quel principio e ciò che è accaduto negli ultimi anni sembrano suggerire la necessità di accompagnare la sussidiarietà con la solidarietà. E soprattutto di ripensare il valore dello Stato e delle istituzioni globali.

L’anniversario del crac di Lehman Brothers è coinciso con una decisione molto importante della Fed, che non ha alzato il costo del denaro. Da settimane si discuteva delle convenienza di porre fine agli stimoli monetari in vigore proprio dal 2008. Negli Usa c’è quasi piena occupazione e la crescita del Pil è notevole: sarebbe arrivato il momento di porre fine alle politiche espansive. Ma gli economisti non si fidano. Nessuno sa cosa si nasconde dietro il crollo borsistico cinese. Forse è solo un aggiustamento, un segnale per dar vita a una modernizzazione ancora non arrivata nel gigante asiatico. O forse è l’inizio di un cambiamento che può avere effetti disastrosi, con tassi di crescita del Pil che potrebbero passare dal 7% al 3-4%: la seconda locomotiva del mondo smetterebbe di tirare. In realtà nessuno sa cosa c’è dietro la muraglia cinese, ma c’è chi segna il calendario con un pronostico funesto: 2008, comincia la crisi finanziaria negli Usa, nel 2010 esplode in Europa e nel 2015 scoppia la bolla cinese.

Alcuni economisti liberali ritengono che l’errore non è stato lasciar fallire Lehman Brothers, ma il fatto che il Presidente della Fed Bernanke e il Segretario al Tesoro Paulson hanno chiesto al Congresso di approvare un pacchetto di salvataggio del sistema finanziario da 700 miliardi di dollari. Il fallimento di Lehman è stata quindi un’eccezione, perché il Governo statunitense ha speso molto denaro per mantenere in piedi il sistema bancario del Paese: le banche sono state salvate, così come i cittadini, mediante la politica di acquisto dei titoli (1,6mila miliardi di dollari fino all’anno scorso) da parte della Fed, che si è tradotta in maggior liquidità nel sistema per facilitare i consumi e la creazione di lavoro.

La sinistra ha in gran parte ragione quando sostiene che in Europa si sono salvate le banche, ma non i cittadini: a partire dal 2010 la Germania impone le cosiddette ricette di austerità che vanificano la ripresa e ritiene i paesi come Grecia, Spagna, Italia e Portogallo responsabili di quanto avvenuto, come se anche il Paese di Angela Merkel non fosse responsabile della “festa” irresponsabile: i paesi del Sud Europa hanno speso più delle loro possibilità perché i risparmiatori tedeschi hanno cominciato a investire il loro denaro nelle terre soleggiate, cercando rendimenti altrimenti impossibili.

Da 30 anni è iniziata la guerra contro un eccesso di inflazione, contro il forte intervento dello Stato, contro il potere smisurato dei sindacati. Questa battaglia aveva senso, ma le misure che sono state usate, specialmente quelle relative alla liberalizzazione dei mercati e alla deregolamentazione finanziaria, spiegano in parte la crisi in cui ci troviamo dal 2008. La religione comunista è stata sostituita dal sogno dei “mercati efficienti”. La teoria economica formulata sotto questo nome si alimentava del vecchio mito di un mercato perfetto, capace di trasformare l’egoismo individuale in bene comune. La globalizzazione e lo sviluppo economico hanno permesso una gestione dell’informazione straordinaria. Tutto era trasparente: gli squilibri si sarebbero corretti da soli. C’erano tanti dati necessari a generare, quasi automaticamente, l’efficienza.

E il mostro è cresciuto. E si sviluppato un sistema finanziario capace di divorare l’economia reale dall’interno. Gli ultimi interventi hanno portato qualche sollievo, ma il fantasma dell’instabilità finanziaria resta presente. E le soluzioni adottate, specialmente in Europa, hanno aumentato la disuguaglianza. Il caso della Spagna è paradigmatico. Instabilità finanziaria e disuguaglianza sono minacce serie per i sistemi democratici che si basano su un’ampia classe media.

Occorre più Stato perché ci sia più società. La globalizzazione dei mercati è irreversibile, ma ha acquisito un’autonomia che può distruggere la libertà e la prosperità. Ha bisogno quindi di adeguati contrappesi. Parlando di Stato non bisogna pensare a vecchie formule. Nel caso dell’Europa è evidente. La frase pronunciata da Draghi il 26 luglio del 2012 (“All’interno del nostro mandato la Bce è pronta a fare qualsiasi cosa serva a salvaguardare l’euro e credetemi, sarà abbastanza”) ci ha salvato dall’abisso. Non è stato necessario usare subito le munizioni a disposizione della Bce. È un buon esempio del valore di un’istanza che un “plus di sovranità” può esercitare. Sfortunatamente la lista degli obiettivi che l’Europa deve conseguire è lunga: unione bancaria, mutualizzazione del debito, piano di stimolo (quello di Juncker non sembra all’altezza). 

Una maggior consistenza dello Stato non è necessariamente pericolosa. Uno Stato più forte non deve intervenire direttamente, può dare protagonismo alla società perché lo faccia. Ad Atene era considerato “idiota” chi non partecipava alla vita della città. Uno Stato forte, intelligentemente concepito e diretto, facilita questa partecipazione.