Dopo aver murato il confine con la Serbia, l’Ungheria ha annunciato ieri la decisione di costruire un nuovo muro, questa volta al confine con la Slovenia. Il cuore di una parte dell’Europa si sta chiudendo sempre più a doppia mandata. Lo si è capito anche nei giorni scorsi quando martedì alla riunione dei ministri degli interni dell’Unione europea, poi nella notte di mercoledì, a quella dei capi di governo, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia, con l’astensione della Finlandia, hanno votato no alla risoluzione sull’immigrazione passata a maggioranza che rende obbligatorio per ogni Paese membro accogliere 120mila profughi che al momento si trovano in Italia, Grecia e proprio in Ungheria. Numeri che, pur essendo irrisori rispetto alle proiezioni reali relative all’immigrazione prossima ventura, destano paura nell’opinione pubblica di tutto il continente.
Quanto sono ragionevoli questi timori? Tenere alla propria identità significa chiudersi in un’enclave protetta?
L’esempio di Milano, dove il fenomeno immigrazione/integrazione è oggetto di studi approfonditi da tempo, può aiutare a rispondere alla domanda. In particolare, rilevante è una ricerca del 2011, “L’immigrato, una risorsa a Milano”, a cura del professor Gian Carlo Blangiardo della Bicocca, pubblicata da Guerini e aggiornata nel 2013 e che ha valenza ancora oggi. Nel capoluogo lombardo risultavano residenti circa 250mila immigrati. La comunità più numerosa è quella asiatica, seguita da quella dell’Est europeo. Nel 1997 coloro che si dichiaravano musulmani a Milano erano circa il 40% degli stranieri, nel 2010 erano il 26%.
Il pregiudizio spinge a pensare che queste realtà non potranno mai integrarsi e costruiscano dei mondi paralleli destinati a scontrarsi e a sconvolgere la città. La ricerca invece mostra come gli immigrati che arrivano a Milano riescano a costruirsi una vita dignitosa integrandosi.
Il numero degli irregolari è in diminuzione; aumentano le case di proprietà abitate dagli stranieri e diminuiscono gli appartamenti condivisi tra conoscenti, mentre aumentano quelli abitati da nuclei familiari indipendenti. Varia anche il rapporto tra chi è in case di proprietà e chi è in strutture di accoglienza, passato da due a uno nel 2001 e a trenta a uno nel 2013. Dal punto di vista del lavoro, la Camera di Commercio di Milano, osservando che “l’economia milanese tiene grazie anche agli stranieri”, indica che nel secondo trimestre del 2014 sono 38mila le imprese cittadine con titolare straniero (in maggior parte egiziani, poi cinesi, marocchini e rumeni; sono invece cresciuti del 30,7% gli imprenditori giunti dalla Siria, ancor prima dell’ultima ondata di profughi di queste settimane).
Scompare almeno in parte la figura dell’immigrato venditore ambulante che nell’immaginario comune è ancora associata allo straniero. Dal punto di vista dell’istruzione infine l’Università degli studi di Milano è quella che detiene il più alto numero di studenti stranieri d’Italia (26,1%) seguita dal Politecnico (22,4%). Crescono anche le comunità multietniche intorno a parrocchie e a luoghi di aggregazione. Un esempio per tutti è Portofranco, dove ragazzi di ogni etnia e religione, si trovano a studiare e a partecipare a eventi culturali e ricreativi di diverso tipo.
Gli immigrati stranieri sono evidentemente una risorsa da molti punti di vista. Hanno sviluppato una rete relazionale che ha sostituito in molti casi la precarietà iniziale con un preciso radicamento nel territorio.
A Milano, caratterizzata da culture popolari, quali quella cattolica, socialista e liberale, ciò che conta non è da dove vieni, ma se hai voglia di contribuire al bene comune e al bene della città. A Milano il nemico è quello che vuole distruggere il patrimonio, soprattutto sociale, come si è visto dall’abortito tentativo di sabotaggio di Expo da parte dei black bloc, quando la gente si è riunita per ripulire la città.
Ieri il meridionale, oggi l’extracomunitario, sono visti positivamente se vogliono integrarsi e costruire anche senza perdere la loro identità. Questo non significa che il cammino dell’integrazione sia un cammino facile, richiede tempo e impegno da parte di tutti, ma l’esperienza milanese dice che è possibile. L’“altro” è una risorsa per ciascuno e per la città che si arricchisce delle diversità.
Come ha detto uno dei più acuti osservatori del fenomeno immigrazione, il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, “se non ci fossero i migranti bisognerebbe inventarli. I migranti hanno un vantaggio rispetto al volto anonimo del capitale, del commercio o del terrorismo globale: sono persone concrete, tangibili, vicine. Possiamo vederli. Ci offrono l’opportunità di familiarizzare con il non familiare, di concretizzare l’ignoto”. E’ una sfida che l’Europa non può perdere.