La settimana scorsa ho cambiato lavoro. O forse è meglio dire che sono tornato ad approfondire un’esperienza lavorativa già fatta. Dieci anni fa ho lasciato la posizione di cappellano ospedaliero negli Stati Uniti per andare a fare il prete in Medio oriente. Da una settimana mi trovo di nuovo nell’ambiente sanitario qui in Italia. Ma questa volta il posto è un po’ diverso; mentre prima stavo con pazienti generalizzati, questa volta i tipi di patologie sono più ristretti. Faccio visite in cliniche specializzate in malattie più o meno incurabili, ossia pazienti in stato vegetativo con danno neurologico, con disturbi psichiatrici, Aids o in fin di vita.
Cosa mi dice stare con persone che vivono con una condanna a morte? Certo si può dire che su tutti noi, in questo mondo, pende una condanna a morte. Ma c’è una bella differenza, dato che noi siamo molto bravi a non pensarci troppo su. Mi piace come la esprime un personaggio del film Gravity. La dottoressa Ryan Stone, che non è un’astronauta, a causa di un incidente rimane sola nello spazio e scopre che la sua capsula di salvataggio non ha carburante. Dice alla radio, alla quale nessuno sta rispondendo: “Oh, sto per morire… So che tutti dobbiamo morire. Tutti lo sanno. Ma io devo morire oggi. È strano, sapere che… Ma la cosa strana è che ho paura, ho tanta paura. E non c’è nessuno che pregherà per la mia anima. Farai lutto per me? Dirai una preghiera per me? O è troppo tardi?”
Dunque, cos’è per me stare con questi pazienti? E’ qualcosa che mi dice che il grande dramma dell’esistenza sta nel potere o meno dire “sì” alla propria strada. Che la libertà sta soprattutto nel potere riconciliarsi con la propria strada tutta, nel trovare il modo di abbracciare il proprio cammino al destino, anche il cammino che ci porta attraverso la morte. Sto con questi giovani e vecchi, questi coscienti e meno coscienti, questi irrequieti e pacificati per poter scoprire e riscoprire insieme a loro il modo per dire “sì”.
In America, in ospedale, facevo compagnia a una donna in agonia afflitta da spasmi di dolore orrendi. Mi ero messo al suo fianco per gridare a Dio, insieme a lei, il suo “no, no, non ce la faccio”, tutto il male che aveva dentro. E allo stesso tempo per gridare a Dio “Vieni, Santo Spirito, vieni per Maria! Confortala! Aiutala! Vieni nel suo corpo, nella sua mente, nel suo cuore e nella sua anima. Vieni!”. Dopo un po’ quella donna improvvisamente cambiò tono di voce e parole. E cominciò a dire, questa volta con dolcezza: “Sì, Sì! Per te! Lo offro a te! Questo dolore è per te…”. Morì poco dopo, forse in un paio di ore. Ma è morta libera, in libertà.
E’ questo che scopro: per chi vivo, per chi viviamo, a chi possiamo offrire questa morte e questa vita. La domanda è questa. E ho ricominciato a scoprirla.