Quest’estate è stata segnata da furiose polemiche, in Russia, per le incursioni di giovani ultraortodossi che hanno danneggiato delle opere d’arte ritenute “sacrileghe” e offensive dei sentimenti cristiani. Prima a Mosca, dove il 14 agosto un gruppo che si è dato immodestamente il nome di “Volontà di Dio”, ha rovinato quattro opere dello scultore Vadim Sidur esposte in una collettiva al Maneggio; poi un’altra incursione simile il 26 agosto, quando una coppia ha ripetuto l’impresa al grido “vi distruggiamo!”; infine, a San Pietroburgo, dove alcuni “zelanti” hanno scalpellato via da una storica palazzina in stile liberty un bassorilievo raffigurante Mefistofele. Va detto fra parentesi che la mostra al Maneggio (intitolata “Le sculture che non vediamo”) non era particolarmente spinta, ed era dedicata ad alcuni autori ostracizzati nel periodo sovietico perché appartenenti a gruppi “non conformisti” e considerati allora artisti religiosi. Statue di Sidur si trovano a Düsseldorf, Berlino, Princeton.
Nelle ultime settimane, così, sono volate scintille tra due campi che paiono non avere possibilità di dialogo. Lo schieramento laico, incattivito e sprezzante, impreca contro l’oscurantismo dei credenti che pretendono di imporre all’arte i propri criteri morali; la Chiesa dal canto suo grida al sacrilegio e afferma che l’offesa intenzionale del sentire religioso è presagio di rovina per la società. In questo muro contro muro il vero punto della questione, a mio avviso, non sta in quello che dicono molti ortodossi, ossia nell’odio contro la Chiesa ma, ancor prima, nella domanda radicale che questi incidenti pongono perentoriamente alla Chiesa stessa. E cioè in cosa consiste la sua presenza nel mondo, la sua testimonianza alla verità. Se la difesa del bene, della morale diventa l’affannoso, o aggressivo, contrapporsi ai nemici è quasi fatale che la specificità del cristianesimo, la sua “insensata” misericordia diventi, invece che pietra di paragone, fonte di scandalo per i cristiani stessi.
Questa impostazione bellicosa, che in realtà è debole e difensiva, aveva incominciato a prendere piede nel 2013, quando il Patriarcato di Mosca aveva fatto pressioni perché la Duma approvasse la nuova legge sulla “difesa dei sentimenti dei credenti”. Una cosa volatile i “sentimenti”, aveva commentato allora lo studioso Massimo Introvigne, intervistato da una rivista russa: “Nel diritto dell’Europa continentale si difendono non i sentimenti ma i diritti, all’inviolabilità della persona e della proprietà, alla reputazione ecc.”. Il problema esploso quest’estate viene dunque di lì, dal fatto che la Chiesa ortodossa, certo segnata da decenni di persecuzione e di irrisione, ha pubblicamente preteso un risarcimento e una visibilità “d’ufficio” ai propri sentimenti. In più molti suoi membri, sacerdoti e fedeli, sono convinti che non difendere attivamente il bene equivalga ad appoggiare il male. Questo l’equivoco; e di qui la tentazione di fare gesti dimostrativi, come ha affermato padre Chaplin, portavoce del Patriarcato: d’ora in poi “nei processi sociali, nel segnare il confine tra bene e male nello spazio pubblico, non si deciderà più nel segreto degli uffici, con una telefonata o nei corridoi ma nella discussione diretta e nell’azione civile. Se qualcuno ancora non l’ha capito, lo capirà”.
Di fronte a queste espressioni quasi di sfida, dove si coglie una certa approvazione per le “azioni civili” intese come scontro, un parroco moscovita, padre Aleksej Uminskij, ha osservato che certi credenti pongono i propri “sentimenti offesi” al di sopra di Cristo stesso, tanto che sembrano amare più la lotta che Cristo e la realtà della sua salvezza. Ed effettivamente, in televisione il monaco Nikon (del movimento “Fede e Patria”) ha affermato che magari non è proprio ortodosso rendere pan per focaccia agli anticlericali, “però guardiamoci un po’ attorno, cosa fanno gli altri…”. Così, in nome di un’istintiva e generosa difesa della fede, si finisce per convincersi di dover salvare noi qualcosa, dimenticando che siamo noi ad essere salvati.
Questa foga combattiva e apologetica, dura ma ultimamente fragile nel suo appellarsi ai sentimenti, non contagia solo i cristiani russi; anche in Europa davanti a sfide che sono sicuramente gravi e globali, molti cristiani si mobilitano, ma al tempo stesso si lasciano afferrare dal sentimento dell’offesa e poi dal panico dell’assedio; il primo effetto è quello di creare distinguo e fossati sempre nuovi, perché subito si trovano nemici da identificare, fuori e dentro la Chiesa. La frenesia del male da combattere e del nemico da denunciare fa dimenticare qual è la natura della speranza cristiana, come suggerisce in modo radicale padre Uminskij: “Quando si combatte il male si comincia sempre per condannare qualcuno, le sue azioni, poi si identifica lui con le sue azioni, poi gli affibbiamo un’etichetta e lo disumanizziamo, a questo punto possiamo anche distruggerlo”.
Invece “Dirò una cosa un po’ strana, ma la Chiesa non ha lo scopo di combattere l’aborto, la criminalità, la droga, le unioni omosessuali. Per il semplice motivo che la Chiesa non combatte il male, ma vi si oppone con quello che è…”.