Per Marx ed Engels era il “proletariato straccione”: disoccupati cronici, persone senza fissa dimora o dai lavori saltuari. Questa realtà, complice la crisi economica, è in qualche modo tornata alla ribalta, rientrando in quell’area “del disagio sociale” che, nonostante i piccoli segni di ripresa dell’economia, è in costante crescita. Secondo i dati elaborati da Unimpresa (Unione Nazionale Imprese) gli italiani senza occupazione fissa e a rischio povertà tra settembre 2014 e settembre 2015 sono aumentati di 283mila unità. Un aumento pari al 3,1%, che arriva a toccare nel complesso quasi dieci milioni di persone, esattamente 9 milioni e 533mila. Si tratta non solo di disoccupati (circa 3 milioni) ma anche e soprattutto di lavoratori precari in gravi difficoltà economiche.
Il continuo sforzo per ridurre povertà e disuguaglianza fanno parte della nostra identità. E c’è da sperare che non ci si rinunci, magari trascinati da scelte obbligate dalla necessità di ridurre la spesa, che non vengono neanche messe a tema. Pena la perdita di un tratto di civiltà conquistato a caro prezzo. Tuttavia la situazione dei deficit pubblici, l’aumento della speranza di vita e della quantità e qualità dei bisogni, rende utopico pensare che lo Stato possa farsi carico di finanziamenti crescenti e capaci di rispondere alle necessità in questo campo.
Ci sono diversi aspetti da considerare per cercare di ridurre quell’area del disagio che sta assumendo dimensioni preoccupanti.
Va detto subito che il mercato nel welfare non può sostituire l’intervento pubblico tout court se l’obiettivo è un sistema di welfare universalistico. Ciò è concepibile solo in settori “ricchi”, come la sanità e l’assistenza. Ma, anche in questo caso con molte cautele perché il lucro può far esplodere i costi. Infatti, ad esempio, accanto a sistemi sanitari misti, pubblico-privato, come quello lombardo, in cui l’incidenza della spesa sanitaria convenzionata sul Pil è ben sotto la media nazionale (5.7% contro 7.1%), ce ne sono altri in cui la presenza prevalente del mercato significa costi più elevati, come negli Usa, dove l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil è sopra il 16% e i meno abbienti sono esclusi.
Il sistema va quindi ripensato, senza illudersi che il cosiddetto mercato possa sostituire in toto lo Stato, in settori come quelli del welfare (disabilità, minori; formazione professionale, malattie rare…) che per definizione non sono remunerativi.
Eppure, in questo momento non si può fare a meno delle risorse dei privati. Come fare allora?
Forse è venuto il momento di considerare seriamente le strade migliori che sono state intraprese nel mondo in questo campo, come ad esempio quelle legate alla cosiddetta finanza sociale. Paesi come Regno Unito, Stati Uniti e Canada da tempo ne sono all’avanguardia: si tratta dell’elaborazione di partnership pubblico-private dove la finanza sostiene investimenti di tipo sociale con un basso ritorno economico, o un ritorno misurato sui risultati sociali raggiunti, ma comunque con restituzione del capitale.
Viene così superata la logica del fondo perduto, con il vantaggio di valorizzare la responsabilità, evitando fenomeni di assistenzialismo che non creano sviluppo (come ampiamente aveva documentato, a proposito dell’esperienza americana, il bel libro di Francesco Tanzilli, “La via americana al welfare. Da Kennedy a Bush”, ed. Guerini 2009). Interventi di questo tipo riescono a essere sostenibili se e quando coinvolgono realtà non profit impegnate nel sociale ad alta efficienza ed efficacia.
Quindi, in sintesi: a fronte di un ritorno economico per coloro che hanno investito dei capitali, si ottiene un beneficio sociale concreto per i bisognosi permettendo infine allo Stato di risparmiare. Un secondo filone è quello dell’incremento del Secondo welfare (studiato in Italia dalla scuola del prof. Maurizio Ferrera), che consiste in una varietà di interventi, soprattutto sotto forma di servizi, messi in campo da una molteplicità di attori (imprese, sindacati, cooperative, associazioni di rappresentanza, etc.) che integrano, senza sostituirlo, il “Primo welfare”, quello pubblico.
In fin dei conti, si tratta di elaborazioni moderne di intuizioni che stanno nel Dna della nostra imprenditoria sociale.
Una volta, alcuni lungimiranti grandi imprenditori, oltre a non cercare di dare al lavoratore il contratto più precario possibile, gli offrivano una serie di servizi, come asili, scuole, case di riposo. Il lavoratore era considerato una persona da tutelare, non qualcosa da usare e dimenticarsene quando l’abbondanza fosse passata. Pensiamo a Adriano Olivetti o a Michele Ferrero, che hanno costruito interi villaggi abitati dai loro dipendenti o al caso del villaggio di Gera d’Adda costruito dall’imprenditore Silvio Crespi.
Occorre rimboccarsi le maniche per dare vita a una nuova innovazione sociale ed economica che veda il privato sociale alleato con le istituzioni e dove le finanze siano sia statali che private, unendo interesse e ideale. Come insegna la nostra storia, un interesse può non essere solo a scopo di lucro. L’interesse può anche essere messo a servizio della comunità: così è stato reso storicamente possibile il welfare universalistico. E solo così potrà permanere.