Tante volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con le vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita. Perché l’amore mi si porse ed io mi ritrassi dal suo inganno; la tristezza bussò alla mia porta ed io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò e io temetti gli imprevisti. Eppure tutto il tempo avevo fame di un significato nella vita. E ora so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza significato è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio — è una barca che desidera il mare eppure lo teme“.

Antologia di Spoon River, George Gray. Questa è la poesia che ci ha accompagnato nei lunghi mesi di preparazione del NY Encounter 2016. Non occorre essere mostri di sensibilità per sentirsi toccati da queste parole. Sono come un coltello affilato, come sale sulla ferita del nostro cuore senza pace. Roba di un secolo fa, ma potrebbe essere di oggi. Parole che certamente raccontano della nostra paura davanti al mare infinito e misterioso della vita. 

Ecco, il nostro Encounter 2016 lancia la sfida a questa domanda: è la paura l’ultima parola sulla nostra vita? La nostra paura racconta tutto del nostro cuore?

Non c’è risposta teorica. O c’è una vita, o non c’è nulla.

Cos’è allora questo bellissimo spettacolo di vita che chiamiamo Encounter? Solo un’illusione? Una promessa — innegabile, irrefutabile nella sua evidenza — che non potrà essere mantenuta? Perché anche partissimo, anche avessimo una meta, ce la faremmo?

“Il problema è la tenuta…” — potrebbe essere la riflessione a voce alta di uno di noi in questi forsennati giorni che hanno preceduto l’avvio del New York Encounter. La tenuta, anno dopo anno, di una cosa nata piccina, come sempre avviene in natura quando si comincia a vivere. Ma ogni creatura è fatta per crescere, e crescendo ha sempre più bisogni, sempre più attese, aspettative e questo richiede lavoro, che costa fatica, stanca. Come quando si lascia il porto pieno di entusiasmo e ci si ritrova in mare aperto. Si, verrebbe da dire che un po’ alla volta, in un viaggio lungo tutta la vita, il problema diventa la tenuta. Proprio ieri un amico mi ha fatto riesumare dall’oblio della dimenticanza questo stralcio di conversazione avvenuto quasi trentacinque anni fa. Il problema è la tenuta…“, dice uno con aria di pensosa preoccupazione … “No!” replica l’altro con veemenza, con la forza che viene dalla certezza, “Il problema non è la tenuta. Il problema è la vivezza dell’origine!” 

La “vivezza dell’origine”, quell’inaspettato compagno di strada che trasforma il desiderio in domanda, in mossa, che ci fa levare le vele; qualcosa, qualcuno più grande del nostro timore e delle nostre incapacità che dà fiato, carne e sangue al nostro desiderio. Perché la barca della vita mia se ne può rimanere sicura nel porto, ma una barca non è fatta per stare ormeggiata. 

Abbiamo radunato quarantadue speakers, messo su cinque mostre, due spettacoli originali, un ristorante e tante altre vele al vento per portare al mondo la testimonianza di chi non è definito dalla propria paura. Se abbiamo paura? Ci siamo “imbarcati” in un altro Encounter perché “la vivezza dell’origine” è più forte della paura, non perché non ci tremano mai le vene ai polsi. 

L’Encounter può continuare, crescere, finire, ma qualcosa di nuovo, bello e vero nascerà sempre da chi spiega le vele della vita al vento del desiderio. Le vele della vita mia! è per me quella lapide di George Gray, è mia la barca che non si accontenta di starsene nel porto, è mio il desiderio che vuole lanciarsi verso il mare infinito, è per me questo Encounter.

Mollare gli ormeggi e restare fedele alla “vivezza dell’origine”, come disse don Luigi Giussani trentacinque anni fa. 

Il New York Encounter è solo per questo. Come and see — venite a vedere.