La scoperta dell’arte è cosa misteriosa e personalissima, ma — forse — non del tutto incomunicabile. Non so dire come mai, ma ricordo perfettamente che, tra le immagini dei libri della scuola media, una mi si era impiantata nella memoria con nitidezza e imponenza particolari: la Camera da letto ad Arles di Vincent Van Gogh. Nel corso degli anni successivi la riproduzione di questo celebre quadro mi sarà capitata sotto gli occhi centinaia di volte, sempre suscitandomi la domanda: chissà perché mi piace così tanto?
Adesso — 9 gennaio 2016 — al quadro ci sono proprio davanti. Grazie alla cortesia di un amico, sono ad Amsterdam, dove è in corso, al museo Van Gogh, una interessante mostra che mette in parallelo le opere dell’olandese intestatario del museo con quelle del norvegese Edvard Munch. Sulle pareti si susseguono ritratti, paesaggi, case, alberi, cieli notturni, rive marine dell’uno e dell’altro, messi in parallelo ad evidenziare similitudini e diversità dei due indiscussi padri della corrente espressionista del secolo scorso. Sapevo che in mostra c’era anche la «mia» stanza e alla fine eccola qui.
Dal vivo è ancora più bella di quanto immaginassi. E ora forse ne colgo meglio il fascino: è che quel piccolo spazio, occupato da oggetti quotidiani (grosso modo quelli che anch’io avevo da ragazzo e ho ora nella mia camera), vive di una vibrante attesa; aspetta qualcuno. Quella stanza non è vuota di umanità e infatti Van Gogh l’ha dipinta nei giorni in cui attendeva l’arrivo ad Arles di Paul Gauguin, col quale sognava di costituire il primo nucleo di una affiatata comunità di artisti, come se volesse mostrare all’amico il proprio ambiente più intimo perché l’altro potesse parteciparne. Ed è un ambiente caldo, ordinato, dove una luce pacata evidenzia cose (le sedie, l’asciugamano appeso, lo specchio e il letto di scorcio con la coperta rossa che segna l’acuto coloristico del quadro) adagiate in un «riposo assoluto», come il pittore scrisse in una lettera.
Sappiamo bene che il rapporto tra Van Gogh e Gauguin finì male: litigarono sempre più di frequente finché Gauguin decise di andarsene e Van Gogh in un folle gesto di auto punizione si mozzò parte dell’orecchio, iniziando a precipitare nel disagio psichico che lo porterà alla clinica e, dopo appena due anni dall’esecuzione di questo quadro, al suicidio. Con uno sguardo retrospettivo ci possiamo, quindi, rendere conto dei brividi di insicurezza che in questo quadro coesistono con la luminosa calma di cui abbiamo parlato: quasi tutti gli oggetti pendono un po’ a sinistra come se stessero per cadere, le porte chiuse e la finestra dietro cui non si vede niente danno un leggero senso di claustrofobia, quel rosso della coperta è anche il colore del sangue.
Così mi è più chiaro ancora perché questo quadro mi piacque fin da ragazzo. Perché la vibrante attesa che un adolescente ha nei confronti della vita è speranza di cose belle, di rapporti intensi, di armonia e di purezza; ed è confusa percezione che ci sarà anche il dolore e la contraddizione, il possibile fallimento. Ma il miracoloso attimo di attesa nel mattino della vita (e in ogni mattino) resta lì, presente, incancellabile nella sua bellezza.