Quando sono arrivata in Russia, ho capito in fretta che se volevo parlare di unità tra i cristiani dovevo evitare accuratamente la parola «ecumenismo», che sembrava irrimediabilmente compromessa dalle parate ufficiali in cui le Chiese, con il pretesto di gesti e dialoghi «ecumenici», svolgevano in realtà ben precisi mandati politici o quantomeno acconsentivano a giochi del tutto estranei alla fede cristiana. Mi ha stupito che, a distanza di molti anni, sia stato proprio un ortodosso russo, il biblista Andrej Desnickij, a proporre di reintrodurre questa parola – ecumenismo – all’indomani dell’abbraccio tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo al Fanar: quella testimonianza, così immediata e misteriosa, di una comunione umana che trasfigura i rapporti e svela in trasparenza «Cristo tutto in tutti», ha ridato credibilità a un termine che sembrava usurato e svuotato di senso. La Chiesa ripropone ogni anno, dal 18 al 25 gennaio, una settimana di preghiera per l’unità dei credenti. A fronte della caotica situazione in cui ci troviamo, qui in Russia come in tutto il mondo, c’è il rischio di ridurre questo gesto a una delle tante «buone intenzioni», forse nemmeno la più urgente. Ma c’è chi ha il coraggio, oggi come in altre epoche drammatiche, di ritrovare nell’ecumenismo la radice della salvezza e della speranza: proprio ieri il Papa ha ricordato che tutti noi, «peccatori e bisognosi di essere salvati, redenti, liberati dal male», ebbene, «tutti noi, cattolici, ortodossi e protestanti, formiamo un sacerdozio regale e una nazione santa. Questo significa che abbiamo una missione comune, che è quella di trasmettere la misericordia ricevuta agli altri, partendo dai più poveri e abbandonati». È l’unica possibilità di ripartire: ripartire cioè dalla condivisione di questa grazia, che è l’unica cosa in grado di creare un legame indissolubile tra i cristiani – e anche tra gli uomini. La Russia è riemersa dalle vacanze invernali assillata dal problema di una crisi che sta assumendo contorni sempre più cupi. Molto acutamente, Ol’ga Sedakova ha scritto recentemente che ciò che manca oggi è proprio una «speranza a lungo termine, di respiro sociale»: in altri termini, la gente non si aspetta più niente di buono dal futuro, cerca piuttosto di mettersi al riparo, di crearsi delle vie di scampo. Non si sa più che cosa sia la speranza, ad esempio, che aveva sorretto la popolazione nella grave crisi dei primi anni ’90, quando la caduta dell’ideologia lasciava intravvedere nuove possibilità, in vista delle quali sembrava valesse la pena di tirare la cinghia, di fare sacrifici. Oggi, non si vede altra prospettiva se non una chiusura e una conflittualità generalizzate, fomentate da mesi dalle autorità – purtroppo, talvolta anche religiose. L’altro non è un bene per me. Non sono pochi i credenti che, in questo contesto, si chiedono disorientati che cosa sia possibile fare, come rispondere, come vivere la propria responsabilità in un contesto che sembra ignorare, calpestare la persona.
È evidente che ripartire da sé, da propri progetti sarebbe velleitario, ideologico o sentimentale a seconda dei casi: il peccato, il tradimento, la follia è quando «ci sottraiamo alla semplicità di Cristo, al primato di Cristo… Per questo ha potuto avvenire la divisione, per questo non riusciamo in alcun modo a ritrovare l’unità. Per l’unità tutti noi – sia loro che noi – dobbiamo ritornare nuovamente al primato di Cristo». Sono parole scritte negli anni ’50 da Sergej Fudel’, un padre di famiglia ortodosso, una vita trascorsa fuori e dentro dal lager, che non aveva perso però il desiderio appassionato di consegnare alla giovane generazione, in primo luogo ai suoi tre figli, il segreto della speranza. Una speranza che abbraccia il mondo intero, e che faceva scrivere a padre Anatolij Žurakovskij, un giovane sacerdote ortodosso deportato negli anni ’20 (sarebbe stato fucilato a 40 anni nel 1937), ai suoi parrocchiani: « La nostra comunità (sono con voi nella preghiera e nell’amore) è per me un grande, singolare tentativo di costruire, non un cantuccio all’interno della vita, ma la vita stessa in tutta la sua molteplicità… perché vivere e servirLo sono la stessa cosa. Allontanarsi da Lui, staccarsi da Lui, significa morire. Questa, cari fratelli, è la nostra comunità». Una comunità che è dimensione della persona, e che per questo può dilatarsi fino ai confini dell’universo.