“Il nuovo protagonismo italiano”, così come lo ha definito Matteo Renzi nei giorni scorsi con un post su Facebook, è stato da più parti interpretato come una provocazione di marca populista. Prima, dal presidente della Commissione Jean Claude Juncker, poi dal tedesco Manfred Weber, presidente del gruppo Popolare europeo che, riferendosi al nostro presidente del Consiglio ha detto: “sta mettendo a repentaglio la credibilità europea a vantaggio del populismo”. Lo scontro tra governo italiano e Commissione europea, stemperato parzialmente solo negli ultimi giorni, sottintende molto di più di quanto possa sembrare. In ballo, come ha detto qualcuno, c’è “il senso comune dell’intera Unione europea” e “la peggiore crisi politica dai tempi della Seconda guerra mondiale”.

L’Italia, populismo di Renzi o no, ha bloccato l’accordo che prevede un contributo di tre miliardi di euro alla Turchia da parte dell’Unione Europea. Con quei soldi Ankara si impegnerebbe a bloccare il flusso di profughi provenienti dalla Siria, creando strutture e aiuti adeguati. Due di questi tre miliardi dovrebbero essere versati dai membri della UE, ma il governo italiano ha chiesto che siano tutti a carico del budget europeo.

Un rifiuto, il nostro, che ha innervosito i piani alti di Bruxelles e anche quelli di Berlino. Da qui la serie di polemiche che hanno visto Renzi accusato di volere lo sfascio dell’Europa, con Juncker a ribattere che l’Italia “da qualche tempo a questa parte non perde occasione per attaccare la Commissione”, e ad aggiungere poi che il nostro Paese “gode di varie forme di flessibilità” e che “il debito pubblico italiano è una minaccia per l’Europa”.

Già altre volte su queste colonne abbiamo denunciato la disparità di trattamento che l’Europa riserva all’Italia, ad esempio nel caso della resistenza dichiarata a progetti come quello della “bad bank”, oppure ai due pesi e due misure con cui vengono affrontati i cosiddetti “aiuti di Stato”. Per non dire del fatto che la Francia ha un deficit superiore al 3% e che la Germania viola le regole europee sul surplus commerciale, regole che noi invece dobbiamo rispettare.

Potremmo anche citare le imposizioni calate dall’alto. Ad esempio la norma per le offerte economiche negli appalti pubblici che regolava la valutazione automatica delle cosiddette offerte anomale (pensata intelligentemente dopo Tangentopoli per limitare i ribassi eccessivi), è stata ritenuta dannosa per la concorrenza. Non è difficile prevedere che questo renderà insostenibili i meccanismi di controllo in gare a cui partecipano a volte centinaia di imprese, con tempi lunghissimi e ricorsi al Tar, paralizzando quindi l’esecuzione dei lavori.

Ciò che domina l’Unione Europea è una concezione astratta basata su teorie liberiste che hanno fatto il loro tempo, che non guardano alla realtà in quanto tale. Lo abbiamo visto anche nella crisi finanziaria di questi anni.

Occorre quindi che gli interessi nazionali tornino a prendere il sopravvento rispetto alla causa comune europea? Se questo accade è perché da troppo tempo e troppo spesso l’Unione europea è diventata la copertura degli interessi di alcuni Paesi forti oltre che di gruppi economico-finanziari forti. Non c’è da stupirsi della nascita di tanti movimenti politici anti europeisti (benché animati da un cinismo ancora peggiore). Stupisce piuttosto chi parla di perdita di “senso comune dell’Unione europea”.

Quel senso è già stato perso da quando la posizione ideale con cui era nata l’Europa è andata evaporando sempre di più.

L’idea di un’Europa unita nacque per affermare ideali di libertà, giustizia, democrazia, uguaglianza. A questo scopo, da più parti furono accettate delle limitazioni degli interessi nazionali, ma fu possibile perché gli ideali comuni erano più forti.  

Anche oggi l’unica realistica via di uscita è, come dice don Julián Carrón che “l’Europa sia lo spazio in cui si possano incontrare i diversi soggetti, ciascuno con la propria identità, per aiutarsi a camminare verso il destino di felicità cui tutti aneliamo”. In Europa, come diceva Totò, abbiamo bisogno “di uomini non di caporali”.