Se dovessimo comporre una tag cloud (quei disegnini che vanno tanto di moda, nei quali si visualizzano le parole usate in un discorso, in un libro, in una trasmissione, mostrando in grandezza maggiore quelle più frequenti), se dovessimo dunque fare una cosa simile raccogliendo le parole che vengono pronunciate nella Chiesa oggi, una senz’altro apparirebbe grossissima: misericordia. Purtroppo la frequenza del suo utilizzo non va necessariamente di pari passo con la chiara consapevolezza del suo contenuto. Si assiste, anzi, ad un variegato depotenziamento del termine, che ne evidenzia un aspetto magari vero, ma non esaustivo, e così non ne coglie il nocciolo. Si dice che misericordia è la benevola disposizione verso i miseri, coloro che la vita mette alla prova con sofferenze (e si citano a supporto le sette «opere di misericordia»; di solito più le corporali che le spirituali).
Si dice poi che la misericordia è non essere troppo severi nel giudicare il peccato e l’errore, ma lo si dice con quel tono che assomiglia molto al tentare di convincersi che in fondo quello lì non era proprio un peccato e, comunque, era leggero: misericordia come sconto sulle esigenze etiche della religione. Oppure si dice che la misericordia è riconoscere che la pretesa cristiana di essere l’unica via di salvezza deve lasciare il passo all’ammissione che ogni strada è buona e che quindi nel supermercato religioso approntato da quel vecchio bonaccione di Dio tutto è uguale. Ancora, la misericordia viene interpretata come disposizione per cui il sentimento prevale sulla ragione, la commozione cancella il giudizio, la bonarietà sostituisce la giustizia. Più ancora che stare a discutere queste o altre interpretazioni — spesso riduttive e a volte fuorvianti — preferisco attestarmi sulla frase di papa Francesco: «La misericordia è il nome di Dio». Con ciò sono chiaramente posto di fronte ad una cosa che eccede infinitamente le misure della mia interpretazione, tanto quanto Dio eccede la mia capacità di capirlo.
Le visioni che ho elencato mancano del dramma che si apre quando parliamo di misericordia. Dramma dell’uomo che non va in cerca di scorciatoie, riduzione di oneri, calmanti spirituali, ma di quell’unico abisso che risponde all’abisso del suo bisogno lealmente guardato e della sua malvagità riconosciuta, e quindi capisce che tale risposta è e sarà sempre assolutamente, radicalmente, totalmente immeritata, gratuita. Dramma — se così posso esprimermi — di Dio che propone al mondo una immagine di sé che tutta la saggezza umana non può che deridere.
Lo scriveva chiaramente già nel secondo secolo Celso, il grande avversario dei cristiani: «Se Dio [come dicono i cristiani] si lascia dominare dalla pietà per chi geme e solleva i malvagi e respinge i buoni che non ricorrono a tali mezzi, Egli commette la più grave della ingiustizie». Agli occhi di qualsiasi calcolo umano il gesto misericordioso di Dio ha il sapore scandaloso di una ingiustizia.
Misericordia, dunque, non è una caramellina di zucchero per ridarci un po’ di energia, ma una spada che vuol entrare a rimettere a posto — finalmente — quel che pensiamo di noi e quel che pensiamo di Dio. C’è da pensarci per tutto un anno (e oltre).