Final Fear, lo chiama T. S. Eliot in Assassinio nella Cattedrale. Ne abbiamo due traduzioni. La vecchia, molto diligente, forse non geniale ma umile e corretta, dice “spavento finale”, mentre la nuova, con maggiori ambizioni interpretative, alla fine si accontenta di “terrore totale”.
“Totale” generalizza Fear, trasformando un volto vivo in una statua di cera. “Totale” può significare tutto, “finale” no. E di solito il poeta, che è a suo modo uno scienziato, aborre le parole che possono significare tutto. Molto meglio “finale”.
Ma è su “spavento” che mi vorrei soffermare. Perché la stessa parola (non “terrore”) compare in questi giorni su diversi giornali non a proposito di nefaste imprese, crimini, sgozzamenti o altri simili orrori ma a proposito dell’andamento della borsa mondiale.
Il crollo degli indici finanziari è stato spiegato con lo spavento degli operatori dovuto al calo del prezzo del petrolio. Non nascondo di essere stato molto colpito da queste semplici parole.
Prima però di ogni considerazione, voglio ricordare che nel dramma di Eliot le donne di Canterbury, prima di parlare di spavento, descrivono la loro vita quieta, dettata dall’abitudine e popolata di cose piccole cose: tra queste anche orrori, scandali e sparizioni inspiegabili.
E’ lo stesso tran tran raccontato da H. G. Wells in uno dei primi romanzi di fantascienza, The Time Machine, dove il resto imbelle di quella che fu l’umanità accetta di essere servita da un popolo di mostriciattoli cannibali in cambio di qualche vittima, di tanto in tanto.
Le due opere ci ricordano, ciascuna a suo modo, che ci si abitua a tutto, ossia che anche un mondo popolato di orrori — come quello odierno — può essere mantenuto ai lati della coscienza. Living and partly living dice Eliot: “vivendo e parzialmente vivendo”. Siamo al mondo ma non del tutto, ogni coscienza può scavarsi la sua nicchia ecologica, scegliere il pezzo di vita da vivere.
Mai come in questi giorni mi è parso di capire che la finanza ha preso il posto di quello che un tempo furono la filosofia e il romanzo. Chi lavora in finanza è costretto a vedere l’intero del mondo, le sue connessioni, le sue sinapsi forse meglio dello scrittore o del filosofo, che hanno visto ridurre la loro forza a un ruolo, a una professione, a una specialità.
Insomma: ci si abitua a tutto, ma non al Tutto.
In questo mondo di specialisti si leva una parola, “spavento”, dagli schermi plurimi dei computer, dai piani alti delle società finanziarie, forse dai bugigattoli di qualche hacker di genio. Là dove si affastellano i grafici che segnano l’andamento del “valore” ossia del prezzo di tutte le cose, così che la loro connessione necessaria descrive l’andamento stesso del mondo, là una parola si alza: spavento.
Lo spavento non è la paura. Noi conosciamo la paura, conosciamo il panico (che è uno stato medico), mentre lo spavento riguarda qualcosa che non conosciamo, qualcosa come un “tutto”, che sfonda le quinte del nostro pezzo di vita, e spazza via quel partly che ci ha aiutato a sopravvivere.
Spavento di che? Di una connessione che sta per saltare anche se i suoi pezzetti potranno sopravvivere per un po’. Io la chiamo “crisi del patto sociale”, ossia un’incapacità sempre più diffusa di capire cosa ci tiene insieme, e perché possiamo fidarci gli uni degli altri fino a poter salire su un treno, eleggere un cda o bere un bicchier d’acqua senza dover nutrire sospetti.
Ogni anno si chiedono sempre più diritti (non mi addentro nella discussione sulle unioni civili) e ogni anno l’uomo conta sempre meno. Cerchiamo sempre più garanzie, tutele, la parola “sicurezza” domina i programmi politici, ma intanto crescono i suicidi, i crimini insensati, i progetti velleitari (è il classico coraggio dell’ignoranza) e il numero di coloro che controllano davvero il mondo sembra assottigliarsi sempre di più.
Chi di mestiere deve monitorare l’andamento del valore non può non accorgersi, tra entusiasmi e spaventi, di questa precarietà del valore della merce-uomo, del prodotto-uomo. Per questo penso — e lo dico contro me stesso — che il grande romanzo del nostro tempo sia quello che si scrive, di giorno in giorno, nelle agenzie finanziarie.
Eppure non dobbiamo ignorare quanto di salutare ci può essere in questo spavento globale capace di cancellare la nostra parzialità. Di nuovo la pretesa della ragione umana — che è quella di rapportarsi alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori — si fa strada in mezzo ai nostri distinguo, ai nostri specialismi, alle nostre nicchie ecologico/etiche. E ci ricorda che noi siamo fatti per il tutto, e per nient’altro. E se i poeti di oggi non sanno più impartirci questa lezione, be’, lo faccia almeno la finanza.