Siamo entrati nella Quarta rivoluzione industriale, quella della cosiddetta intelligenza artificiale. Automobili che si muovono senza autista, macchine che confezionano articoli di giornale, leggono tac e radiografie e compilano la dichiarazione dei redditi. Ma anche molto altro.
La recente accelerazione nello sviluppo dell’high-tech rende sempre più sofisticati ambiti come l’automazione dei sistemi di produzione, la robotica, l’“Internet delle cose”.
Secondo il rapporto “The Future of Jobs” presentato al recente vertice del World Economic Forum di Davos (intitolato proprio “Mastering the Fourth Industrial Revolution”), lo sviluppo tecnologico in atto renderà superfluo il lavoro di una grossa fetta di persone: entro il 2020 spariranno sette milioni di posti di lavoro, mentre ne nasceranno di nuovi solo due milioni.
I settori professionali destinati ad andare maggiormente in crisi nei prossimi anni sono nell’ordine: lavoro di ufficio e amministrativo; manifatturiero e produzione; arti, design, spettacolo, sport e media; costruzioni ed estrazioni; installazione e manutenzione. Viceversa, i settori professionali destinati a crescere sono architettura e ingegneria; informatica e scienze matematiche; management; affari e finanza; vendite e attività relative.
Va detto che sulla questione esiste un dibattito in corso con differenti punti di vista.
Voci preoccupate per questo scenario si sono alzate da più parti. Il presidente Barack Obama, durante il suo recente discorso sullo Stato dell’Unione, ha lanciato un allarme, sostenendo che “ogni posto di lavoro oggi rischia di essere sostituito dalla tecnologia”. Papa Francesco, sempre attento a denunciare il pericolo di uno sviluppo che sacrifica gli ultimi per ottenere maggiore ricchezza in favore di pochi, nel messaggio mandato al vertice di Davos sottolinea il valore di ogni uomo, in qualunque situazione, senza però arrivare a condannare il cambiamento tecnologico. Piuttosto, pone l’accento sulla libertà di cui l’uomo dispone e che lo rende in grado di governare l’economia: “L’uomo deve guidare lo sviluppo tecnologico non farsi comandare da esso”.
Quanto sono giustificati l’allarmismo e i relativi riflessi luddisti suscitati dal discorso di Obama, e quanto è ragionevole o utopica la posizione del papa?
Le precedenti rivoluzioni industriali sembrano suffragare la tesi allarmista. In tutte le fasi che hanno segnato grandi trasformazioni nella produzione di beni non sono mancati, nel breve periodo, espulsione dal mondo del lavoro e sfruttamento. Non si possono dimenticare, nell’Inghilterra di fine Settecento e primo Ottocento, fenomeni quali la recinzione dei terreni fino ad allora di proprietà indivisa dalla comunità, l’espulsione dei contadini, l’inurbamento forzato, le condizioni di indigenza estrema e le morti per fame, stenti, mancanza di igiene, lo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto bambini e donne, l’arricchimento estremo di pochi a svantaggio di molti.
Mutatis mutandis, è quanto ha preceduto la rivoluzione industriale, in Europa, in America, in Asia e che è documentato non solo nei libri di storia economica, ma anche dai grandi scrittori sociali da Dickens a Steinbeck, da Victor Hugo a Cronin.
Tuttavia è indubitabile che, nel lungo periodo, anche grazie al contributo determinante della lotta di forze popolari sussidiarie, i grandi cambiamenti economici, benché non abbiano debellato sfruttamento, ingiustizie, condizioni di lavoro degradanti (vedi Tempi moderni di Charles Chaplin), hanno determinato l’incremento del lavoro e del reddito per tutti, mansioni sempre più qualificate per tanti, forti miglioramenti delle condizioni economiche, sociali, abitative, sanitarie, di istruzione, di welfare per la popolazione nel suo complesso. Le rivoluzioni industriali a cui abbiamo finora assistito hanno avuto quindi alla fine un esito positivo, da una parte, e tantissimi vinti di verghiana memoria dall’altra.
E’ possibile oggi ottenere risultati positivi senza i sacrifici umani del passato?
Nel recente saggio di Martin Ford, Rise of the Robots, da poco pubblicato negli Stati Uniti, viene lanciato l’allarme sul fatto che a differenza delle precedenti rivoluzioni, l’attuale implicherebbe un livello di conoscenze e competenze non comuni a tutti e che quindi lo scenario inevitabile che ci attende è quello di un mondo diviso tra pochi ricchi e masse che faticano a sopravvivere.
Questo avrà un impatto sulla domanda, che inevitabilmente diminuirà, togliendo importanza alla produttività che le macchine garantiscono. Basso impatto della produttività, anche rispetto agli svantaggi causati dal restringimento della base produttiva, con tutte le implicazioni sociali del caso.
Secondo i dati di uno studio McKinsey del 2014, le professioni “del futuro” che si stanno via via delineando grazie allo sviluppo tecnologico, determineranno la creazione di 2,6 posti di lavoro, per ogni posto perso.
L’impatto dello sviluppo tecnologico però non rimarrà solo nei settori “high tech” propriamente detti: un altro studio, quello del Boston Consulting Group, ha esaminato il cambiamento delle mansioni dei lavoratori sulla realtà manifatturiera tedesca, pronosticando che in quest’ambito le nuove tecnologie creeranno circa 760mila nuovi posti di lavoro nei prossimi dieci anni.
Dato importante anche per il nostro Paese, dove l’incidenza del valore aggiunto del manifatturiero è decisivo, ma dove, come ha sottolineato il report di Davos, nei prossimi cinque anni i lavoratori dovranno sostituire circa il 40% delle proprie competenze principali, contro il 25% del Giappone, il 28% della Francia, il 29% degli Stati Uniti e il 39% della Germania.
C’è però un dato non trascurabile, che hanno colto sia i ricercatori di McKinsey che Obama nel suo discorso, ed è sotteso a quanto ha detto il papa: l’educazione delle persone. Perché la rivoluzione tecnologica non venga subita, occorre investire in educazione e istruzione: scuole, istituti professionali, università, centri di ricerca, sia pubblici che privati, garantendo nello stesso tempo diritto allo studio, autonomia e parità, libertà di insegnamento che è sinonimo di buona qualità. Altri Paesi lo stanno capendo: in Italia, maggioranza e opposizione, sembrano in altre faccende affaccendati. Siamo davanti a una grande sfida mondiale per tutelare l’uomo e farlo uscire dalla crisi. Evitiamo di perderla per difendere il vecchio “zaloniano” posto fisso statalista, poco pagato e marginale nell’economia del Paese. Un posto magari ricoperto mentre si spera in una qualche lucrosa e clientelare nuova speculazione in fabbricati. Sarebbe l’anticamera della fine.