Che razza di bisogno dovevano avere i Magi per mettersi insieme alla volta di un viaggio così lungo! La Scrittura non ci dice molto su di loro, ma una cosa balza subito agli occhi: nel Vangelo essi non hanno nome, sono tre eppure sono trattati come uno. L’amicizia che sperimentavano tra loro era tale che – per dirla con Cicerone – idem velle, idem nolle. Desideravano la stessa cosa e respingevano la stessa cosa. Ma che cosa permette una compagnia di questo tipo, una fraternità che superi le differenze di cultura, di razza, di storia che la Tradizione ci tramanda come tratti distintivi dei Tre Re al centro del racconto dell’Epifania?
La domanda non è affatto scontata in un tempo in cui fra gli uomini, fra gli stessi cristiani, la parola forse più impegnativa e complessa è proprio la parola amicizia, la forma storica della fraternità. Il segreto dei Magi, come accennato poc’anzi, stava nel loro Io. In nessuno di loro c’era infatti contrapposizione tra Io e Noi, tra l’esigenza di fare un cammino – un lavoro – per sé e l’evidenza del fatto che tale lavoro non poteva essere fatto in una deserta solitudine, ma dentro una strada, dentro un ambito umano a fondamento del quale doveva esserci questo “guardare insieme le stelle”, questo tenere aperti gli occhi fissi verso la realtà, ossia verso quel Cielo che della realtà è il suo significato più pieno e più vero.
I Magi tra di loro non parlano, non discutono, non si divorano, ma permangono nel silenzio di chi è tutto impegnato a scrutare il Cielo per cogliere un segno, per cogliere un astro che indichi il passo da compiere. Che libertà dovevano avere i Magi per arrendersi a quel segno così banale, così impercettibile ai soliti occhi, da non essere considerato da nessun altro se non solo da quei tre. Essi non si sono fermati a dire “Che bello!”, né lo hanno razionalmente esaminato fino alla sua naturale scomparsa, ma si sono fidati, lo hanno seguito. La stella nella notte era una luce fra tante, ma agli occhi di chi cercava, agli occhi di chi mendicava, era qualcosa di più, era una chiamata.
Così oggi un dolore o una malattia, piuttosto che un amore o un piccolo successo, non si può ridurre a qualche cosa dinnanzi al quale incantarsi o ragionare, bensì ha necessità di essere – per me che lo vedo, per me che lo vivo – un segno da seguire, una provocazione per partire, una chiamata a lasciare la mia terra per andare, per partire. Ma partire per dove? Le miglia che percorsero i Magi, alla luce dell’arido segno che a volte perfino spariva dalla loro vista, sono il percorso che può compiere qualunque uomo per scoprire che cosa c’è all’origine del segno, che cos c’è alla radice della stella, dietro al dolore, alla delusione, a qualcosa che inizia.
E fu grande – per loro come per noi – la sorpresa di trovare un bambino all’inizio di tutto. La Bibbia ci narra che, davanti al Bambino, non furono delusi o protesi ad una “devota critica”, ma furono pieni di stupore, curiosi. E riconobbero in quel bambino un Re degno dell’oro, un Sacerdote degno dell’incenso, e un Mistero – a cavallo tra la morte e la vita – degno della mirra. Riconobbero Dio.
Questa è l’Epifania, la più antica festa della Chiesa dopo la Pasqua. La festa del riconoscimento disarmato di un Dio che si è fatto piccolo, si è fatto Bimbo, per poter incontrare l’attesa e il dramma di ciascuno di noi. Ma la fede, il riconoscimento di quella Presenza straordinaria nella carne ordinaria del Fanciullo di Betlemme, non rimase un astratto ricordo. Essi tornarono a casa, alla loro casa, alla loro vita, prendendo “un’altra strada”, lasciandosi cambiare per sempre, del tutto, da quell’incontro, da quel Bambino.
Ciascuno di noi, dopo i giorni del Natale, è chiamato a chiedersi “chi era” quel neonato che ha adorato nella Notte Santa del 25 dicembre. Ma forse, ancora di più, ciascuno di noi è chiamato a chiedersi chi è, come si chiama, che cos’è, Colui che sta all’origine, alla radice, di ogni fatto, di ogni mossa, di ogni segno che si manifesta nella realtà. Epifania è manifestazione, è riconoscimento, è semplicità di cuore. Per tornare alle nostre case, al nostro lavoro come al nostro studio, alle fatiche del nostro matrimonio come a quelle del nostro peccato, per un’altra strada, con un altro sguardo. Perché, dopo aver visto quegli occhi, dopo aver sfiorato le mani di Maria, dopo aver ascoltato il silenzio di Giuseppe, chi ha ancora paura del 7 di gennaio? Chi ha ancora paura di ricominciare?
E’ una domanda ingenua, forse banale, ma tutto dipende dall’Io, dal suo desiderio, e da coloro che ogni giorno ci scegliamo – e possiamo sceglierci – come compagni di strada, come scrutatori delle stelle, come Re Magi.