In una lettera pubblicata dal Corriere della Sera del 23 dicembre scorso don Julián Carrón ha raccontato la storia di alcune persone sorprese ed edificate da gesti semplici di umanità, totalmente gratuiti e apparentemente insignificanti (l’essere chiamati per nome, il sentirsi chiedere da uno sconosciuto come andavano le cose, ecc.), che però ridavano speranza a chi per tutta una vita non era stato altro che un essere senza terra nel mondo dei liberi o un uomo senza destino nella storia dell’umanità.

E insisteva don Carrón sull’effetto di umanità dirompente di questi gesti.

È un’insistenza che non va sottovalutata o archiviata alla fine delle feste, quando può prenderci la tentazione di confinare queste storie nel catalogo delle storielle edificanti del genere omiletico-pastorale. Come avvertiva in fondo lo stesso don Carrón, non dobbiamo lasciarci vincere dalla pressione e dall’enormità dei problemi correnti; non dobbiamo nasconderci dietro il solito gioco di chi riconosce che sono molto belle queste storie, ma la vita è un’altra: quante ingiustizie dobbiamo sopportare, quante disattenzioni, quante proteste, quante manifestazioni, quante petizioni abbiamo fatto, quante lettere abbiamo scritto e nessuno ci ha risposto e dato retta… Tutto vero, tutte impressioni, sentimenti e recriminazioni vere, ma non meno vera, e sicuramente più oggettiva, libera da ogni impressione, è la vita che ci viene consegnata da queste storie.

Quante volte ho sentito raccontare, oppure ho letto episodi simili, nella storia dei campi di concentramento sovietici, là dove nessuno poteva accontentarsi di storielle edificanti perché non era in gioco una predica più o meno riuscita, ma la vita.

È la storia che racconta Solženicyn nell’Arcipelago Gulag quando parla del proprio arresto e di quando la sua valigia, fin lì portata da un prigioniero tedesco, viene presa e portata da un altro prigioniero del gruppo, un soldato sovietico che era appena uscito da un campo di concentramento nazista e «che aveva appena sperimentato Dio sa cosa durante la prigionia tedesca (e forse anche la misericordia)» e, in nome di questa misericordia, rinuncia a recriminare su tutto il resto e decide di dare una mano al tedesco che non ce la faceva più: come è forte questa «misericordia», che non invento io, che non inventiamo noi per giustificare un nuovo anno giubilare, ma che Solženicyn scopriva allora, sulle porte dell’inferno concentrazionario, scoprendola più convincente e resistente di tutte le porte degli inferi.

È la storia che racconta Svetlana Aleksievic quando ci parla di una ragazza esiliata con la sua famiglia di «nemici del popolo» nel profondo della Siberia. La Aleksievic non si attarda a ricostruire le condizioni di vita di questa gente, ma noi sappiamo tutto: gelo, fame fino a costringere gli uomini al cannibalismo; e in questo inferno la ragazza e sua sorella vendono uno scialle di lana per cercare di comprare qualcosa da mangiare e la donna che prende lo scialle paga le ragazze «e poi dice: “se aspettate recido qualche fiore da portare a casa”. Come, dei fiori per noi – continua la ragazza –? Stiamo lì impalate come due mendicanti, vestite di tela di sacco… affamate, piene di freddo… E proprio a noi regalano dei fiori. Pensavamo sempre solo al pane e questa persona ha intuito che eravamo in grado di pensare anche ad altro. Te ne stai rinchiuso, murato e qualcuno ti apre una finestrella… ti spalanca una finestra… Allora, c’è ancora qualcosa oltre al pane… oltre al cibo… possono darci anche un mazzo di fiori! Dunque non siamo diverse dagli altri. Siamo come loro […] Da quel momento… In qualche modo quella è stata la mia chiave… mi hanno dato una chiave… Questo gesto mi ha sconvolto».

Vale la pena ricordare che qui non si tratta di storielle edificanti o di filosofaggini, ma di esperienze reali? E davvero a questo punto ci sarà qualcuno pronto a obiettare di nuovo dicendo che in fondo stiamo facendo letteratura?

Certo è letteratura, ma quante volte guardando un cielo dopo la tempesta ci siamo detti che se avessimo visto quelle nubi e quei colori su un quadro lo avremmo liquidato dicendo che era «un effettaccio irreale» che solo un artista di seconda categoria poteva aver concepito. E invece noi avevamo lì non il quadro ma il modello reale: non una storiella edificante o un discorso convincente ma l’esperienza reale di qualcosa di diverso.

A questo punto si tratta solo di avere la libertà di chiedersi cosa vuol dire quello che abbiamo visto e sentito, cosa vuol dire per ciascuno di noi. E torniamo allora alla Aleksievič che, concludendo la storia della ragazza di prima, ancora una volta in una situazione tragica, ce la presenta in un «centro di raccolta, quando – sono le parole della protagonista del racconto – mi hanno lavata e disinfettata… Sono sotto una cascata d’acqua… Avvolta nella schiuma, il terrore di scivolare, di fracassarmi sul cemento. Mi muovo piano piano, cerco di strisciare i piedi… Un’estranea… un’infermiera… mi afferra al volo e mi stringe a sé: “Uccellino mio, non aver paura”. Ho visto Dio».

Ma chi ha visto Dio in questo mondo non può più essere fermato da nulla, non c’è più ingiustizia, disattenzione, circostanza avversa che possa fermarlo, che possa impedirgli di credere nella forza di questa apparentemente insignificante misericordia.