Il problema dell’immigrazione ha raggiunto, come si temeva, dimensioni estremamente rilevanti. Il collasso dei centri è tanto più preoccupante quanto più gli sbarchi continuano e non possono non continuare, dato il permanere delle guerre e degli atti di terrorismo che ne costituiscono la matrice principale, anche se non l’unica.

Ma ancora più inquietante è la modalità con la quale i rifugiati sono accolti. Probabilmente è l’unica che possiamo permetterci, ma è utile? Costruisce qualcosa, consente di acquisire competenze? Mesi di attesa passati a vedere il tempo scorrere, energie ferme, un mondo bloccato, senza partire né tornare. Quali vite si perdono nei centri? Quali incontri si fanno e con chi? Di quale accoglienza stiamo parlando? È evidente che c’è bisogno di un vero e proprio cambio di passo. Occorre un’altra logica nella quale vanno riviste le procedure e gli obiettivi, gli attori sociali e gli impegni formativi, ma anche l’organizzazione della vita quotidiana dei rifugiati e delle loro famiglie. Per farlo occorre volontà politica, ma anche fondi e risorse umane, cioè soldi e cuore. 

Così come occorre un’altra logica ed un cambio di marcia nella gestione dei quartieri già segnati da criminalità e degrado, dove i problemi non hanno fatto che aggravarsi. Ed occorre un’altra logica anche nella punizione di gesti criminali dettati dall’impulso, sedimentati da una lunga ed oramai cronica abitudine all’inciviltà ed alla violenza. Anche qui vanno riviste le procedure, magari assieme alle regole del codice penale. Per farlo ci vuole coraggio, ma anche consenso trasversale che bisogna avere l’onestà di dare.

Occorre infine affrontare il problema di quanti si ritrovano ad essere ultimi loro malgrado: magari per una malattia pesantemente invalidante o a seguito di un licenziamento da parte di un’azienda che è stata costretta a farlo e si ritrovano con la moglie in cucina la sera, a decidere di lasciare la casa alla banca. Sono gli ultimi che nessuno vede. Drammi silenziosi e segreti, non meno gravi degli altri.

Già il semplice elencare questi problemi in simultanea può essere visto come una provocazione, specialmente per chi sta già operando al massimo. Non vuole esserlo, anzi non c’è niente di più deleterio del non riconoscere le opere già fatte, alle quali va invece reso il loro giusto merito, al di là di qualsiasi polemica. 

Ciò non toglie che sia necessario il farlo, perché questi problemi non risiedono in aree diverse del paese, ma insistono sulle stesse zone e spesso sulle stesse fasce sociali.

Questi problemi, per quanto siano tra loro diversi e provengano da dinamiche differenti, finiscono per sovrapporsi e per conflagrare. Il degrado dei quartieri rende più difficile l’accoglienza, l’assenza di controlli sui gesti di criminalità ordinaria aumenta le chiusure e i timori.

Proprio per questo i dissesti provocati da una qualsiasi di queste criticità incidono sulle altre, aumentando le diffidenze non appena i soggetti colpiti si sentono trascurati a favore delle altre priorità. E non c’è niente di peggio di una graduatoria del dolore, di una rincorsa a mostrare ferite e pene: umilia chi è costretto a farla, discredita chi sarebbe dovuto intervenire.

È il problema della complessità. Non si risolve nessuno di questi problemi senza che gli altri non siano stati simultaneamente avviati a soluzione. Ed è chiaro che le soluzioni non vanno solamente cercate in fondi aggiuntivi, ma anche nella capacità di aggregare forze nuove, capaci di muoversi su base della volontaria gratuità. 

Tuttavia solo un patto fiduciario già concretamente onorato (e quindi non semplicemente annunciato) può consentire di recuperare quel legame tra cittadino e istituzioni oramai in via di avanzata corrosione. Ed è proprio questo patto che occorre sforzarsi di costruire, prima che l’irreparabile precipiti il paese in uno scontro muro contro muro. Due Italie, proprio come ci sono già due Stati Uniti.