Ha ragione, fa bene Matteo Renzi ad additare continuamente il “modello Milano”, a puntarci: è un modello che detiene molti primati di crescita nella Ue (ad esempio la quota di fatturato in prodotti innovativi rispetto ad altre macro-aree trainanti com Baviera, Baden-Wuttemberg, Catalogna e Rhone-Alpes). Ma è un modello che il premier italiano non ha inventato e ha invece trovato pronto e funzionante. Non dando ancora l’impressione di averlo capito e accettato fino in fondo, di aver imparato a usarlo al meglio.

Interpretare il “modello Milano” impone anzitutto riconoscere la sua matrice in un mosaico complesso di società civile e di impresa. A Milano — a dispetto di molto storytelling — le organizzazioni (di partito) o le corti non hanno mai avuto la meglio, non sono mai diventate dominanti rispetto a un dinamismo orizzontale e plurale. Per questo Milano non è mai stata una città scossa o permeata dall’antipolitica ed è sopravvissuta a Mani Pulite. Anche per questo un imprenditore del più alto e ruvido “modello Milano” come Bernardo Caprotti, ha lasciato a Milano la sua Esselunga.  

A Milano Renzi ha trovato anzitutto l’Expo 2015: inventato dal sindaco Letizia Moratti. E il premier non ci ha trovato dentro solo una rara success story dei suoi trenta mesi di governo, ma anche Giuseppe Sala: il candidato-sindaco multipartisan che ha evitato al Pd una débâcle alle ultime amministrative. Anche per questo il dopo-Expo (la sua strategia e i suoi investimenti) è bene sia lasciato a Sala e al “modello Milano”. 

In questo annus horribilis — e non ancora finito — per il sistema bancario Renzi ha trovato a Milano, in Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo, puntelli adeguati per un’emergenza molto seria per il sistema-Paese. Prima Intesa ha pilotato la risoluzione di Banca Etruria & co.; poi — in primavera — l’Acri di Giuseppe Guzzetti ha creato in pochi giorni Atlante, il fondo “salvacredito” che ha raccolto 2,5 miliardi per salvare due Popolari nel Nordest. E’ stato semmai il governo a non fare poi la sua parte: a non trattare con determinazione con la Ue e la Bce, a non mettere in sicurezza Mps ridando stabilità all’intero settore. A Siena, per la verità, Renzi aveva già trovato al lavoro Mediobanca: essa pure “modello Milano”. Ma — come ha sottolineato Ferruccio de Bortoli in un editoriale sul Corriere della Sera — la merchant bank milanese sembra marginalizzata a favore di JPMorganChase: almeno in questi giorni concitati. 

Fosse venuto a Milano due giorni prima dell’ultima comparsata in Assolombarda, Renzi avrebbe potuto far visita in Fiera a Rho a un pezzo di Pil in ripresa autentica, non solo “narrata”: quello delle macchine utensili — cioè del nocciolo di “industria 4.0” — in mostra globale al BiMu. Ma quel “modello Milano” (perché la meccatronica e l’automazione industriale hanno a Milano il loro hub) avrebbe prevedibilmente gradito dal premier un impegno fermo e definitivo sugli stimoli selettivi alle imprese in legge di stabilità: ammortamenti agevolati per le industrie che vogliono svecchiare e digitalizzare il loro parco-macchine e rilancio del credito industriale. Con l’effetto atteso di alimentare ordini per aziende che l’industria 4.0 sono chiamate a farla per davvero: investendo a loro volta in ricerca, assumendo giovani ingegneri, mettendosi in rete con le università del “modello Milano” (che non sono solo a Milano). 

La logica della detassazione mirata, implicita in “industria 4.0″, nelle prossime settimane non dovrebbe essere in balia degli emendamenti-assalto alla diligenza o degli umori pre-referendum di Palazzo Chigi. Meriterebbe invece di essere testata come leva strategica di lungo periodo. Oltre all’impegno di metterla davvero alla prova e attenderne i risultati, sarebbe opportuno avere poi il coraggio di trarne le conseguenze prevedibili in chiave di impostazione complessiva della politica economica: che certamente deve puntare  all'”interesse nazionale”, ma non per queste deve restare “indifferenziata”, anzi. Il miglior modo per misurarsi con l’Europa germanocentrica è mettere in campo player capaci di battere quell’Europa sul suo terreno. Aumentare il Pil per tutti non vuol dire distribuire indifferentemente a tutti le risorse per rilanciarlo.

Mai come oggi governare vuol dire scegliere. Puntare sul “modello Milano” (cioè investire sull’innovazione e sulla competitività generate dalla ricerca e dall’imprenditorialità) è il contrario che scommettere sul Ponte sullo Stretto. Considerare un’ipotetica “Milano 2024” intercambiabile in una notte con “Roma 2024” significa aver capito poco del “modello Milano”: significa, ad esempio, non interrogarsi sul fatto che Milano — con e dopo un evento come l’Expo e rigorosamente senza un evento come le Olimpiadi — attira da tre anni più turisti di Roma. E trent’anni fa sullo skyline dietro il Duomo c’erano ancora le ciminiere. 

Il “modello Milano” il governo Renzi non lo deve omaggiare quando occorre: lo deve lasciar lavorare a Milano e portare con sé a Palazzo Chigi.