Ci sono notizie che vengono accolte con un rassegnato fatalismo e se non fosse per l’improvviso rullar di polemiche passerebbero inosservate. Le recenti polemiche contro il ministero della Salute per l’iniziativa del Fertility day danno la possibilità di ripercorrere proprio ciò che è stato messo da parte: i dati sul calo della popolazione. 

Questi dati che, ovviamente sono apparsi inquietanti, sono stati prontamente rimossi, scavalcati da urgenze ben più immediate. Eppure non c’è da restare tranquilli: 7,6 nascite ogni mille abitanti sono un dato preoccupante. E questo non perché diminuisce il numero degli italiani (come inopinatamente si arriva a pensare), ma perché stiamo mettendo al mondo una serie di bambini solitari, un mondo infantile dove, al posto degli altri bambini, dei compagni di giochi a portata di mano propri di altre epoche, ci sono cani, gatti e tate per chi se le può permettere. A sostituire i compagni che non ci sono incombono già gli onnipresenti giochi elettronici. 

Ora, come è stato fatto osservare, per molti un tale declino non sembra essere accreditabile solo alla crisi economica ma va invece ascritto ad una dinamica culturale, ad un regresso della dimensione della paternità/maternità intesa come valore della persona. L’idea che si facciano meno figli perché non si hanno le risorse per poterli crescere in modo adeguato e, all’opposto, quella che invece ritiene che si tratti di un problema di caduta del valore della genitorialità finiscono così con il contendersi il campo. È abbastanza plausibile ritenere che entrambi i fattori giochino un loro ruolo, ma è anche altrettanto vero che ciascuno di questi non appare esauriente. Manca qualcosa e, in un caso o nell’altro, la diminuzione delle nascite, che ha smentito in negativo le previsioni al ribasso che pur erano state fatte dall’Istat, sembra provenire da qualcosa di ancor più problematico e che, in qualche modo, si situa a priori.

Per capire di cosa si tratta conviene partire dall’evidenza. Questa mostra come l’avere figli resti comunque il desiderio di tutte le coppie, o almeno di tutte quelle che sono entrate in una fase di stabilità affettiva e relazionale, comunque costruita e ottenuta. Il problema sembra risiedere piuttosto nel silenzioso divario che si è venuto a creare tra l’età fisiologica di maggiore fertilità della donna e il periodo della biografia della coppia nella quale emerge quella che possiamo definire come una “volontà di costruire”, intesa nel senso più profondo che questa risoluzione possa avere. 

Appare chiaro come l’affermazione di una tale volontà si affermi così sempre più tardi, insidiata com’è da incertezze affettive e da precarietà economiche al tempo stesso. Ma non basta. Alla base di questo ritardo c’è anche — e soprattutto — un’idea dell’individualità che è profondamente penetrata dal principio di una realizzazione personale vista come condizione a priori, come criterio che è di fatto preliminare rispetto a qualsiasi scelta. Ogni “volontà di costruire” si afferma solo dopo che la propria stessa persona sia stata strutturata, rimessa in ordine da una professione stabilmente acquisita e, in qualche modo, formalmente riconosciuta. Ora, proprio perché una simile concezione di completezza è sempre di più rinviata, si entra in una situazione di stabilizzazione del presente nella quale ogni desiderio umano di fondazione, ogni “volontà di costruire” viene rinviata, fatta scivolare lungo la china degli anni. 

In pratica la persona viene prima di qualsiasi desiderio di costruzione di vita, di qualsiasi genitorialità, la precede e quindi si edifica e si consolida indipendentemente da quest’ultima, che interviene solo successivamente. La “volontà di costruire”, quell’atto di sovranità primaria che costituisce la qualità più profonda ed insieme più potente della dimensione coniugale, viene trascurata, trattata come una scelta opzionale rinviabile e comunque non decisiva.