La cultura europea ha sviluppato verso il “potere” e la “giustizia” uno straordinario equivoco. A partire dall’epoca moderna, infatti, questi termini sono diventati i presupposti rispettivi della libertà e della felicità: se io posso fare qualcosa, allora sono libero; se io ottengo il giusto, allora sono felice. Entrambe queste parole, pertanto, sono state legate all’agire dell’individuo: la libertà è “fare” quello che si vuole e la giustizia, attraverso spesso la politica, va “fatta” e va “fatta rispettare”.
La conseguenza più dirompente di questa mentalità è la proiezione che queste convinzioni hanno prodotto su Dio: Dio è Onnipotente perché può “fare quello che vuole” ed è giusto perché “fa giustizia” ai suoi servi. Le tradizioni patristica e scolastica, al contrario, parlano del potere e della giustizia come due attributi di Dio, attributi del Suo stesso Essere. Questo significa che il potere non è tanto un “poter fare”, quanto un “poter essere”, un “poter stare” dentro le cose, dentro la realtà. Dio è Onnipotente non solo perché può fare tutto, ma soprattutto perché può stare dentro tutto, perché non c’è situazione che lo possa fermare o arginare. La storia non ostacola Dio perché Dio può attraversare qualunque storia e guidarla.
E’ questo il senso della prima lettura che la XXIX domenica del Tempo Ordinario propone nel rito romano: Mosè tiene le mani alzate per permettere a Israele di “stare” nella battaglia e, quindi, di non venire meno, di vincerla. La vittoria, il risultato, è solo l’estrema conseguenza di qualcosa che viene prima ed è la capacità di abitare e di dimorare nella realtà. In quest’ottica, il bellissimo gesto di Aronne e Cur, che aiutano le braccia stanche di Mosè a rimanere alzate, non è altro che l’immagine più potente dell’amicizia umana: l’amico è colui che ti aiuta a stare dentro le circostanze, è colui che ti aiuta ad abitare il presente rivolto verso il significato e il Mistero di quel presente. Non si è mai amici quando si fugge, lo si è sempre quando ci si aiuta a rimanere.
Le considerazioni emerse divengono ancora più sorprendenti se le si riferisce alla “giustizia”: fare giustizia non vuol dire “risolvere” un problema, ma permettere che quel grido giunga alle orecchie di chi può ascoltarlo. Il giudice della parabola del Vangelo odierno è definito da Gesù iniquo perché seleziona che cosa ascoltare, perché non ascolta e non prende in considerazione il grido della vedova se non “per sfinimento”. Dio è giusto non perché ci risolve i problemi, ma perché nel Suo cuore fa sempre spazio per il nostro grido, ospita il nostro pianto e permette che le nostre ferite emergano e siano curate.
Per troppo tempo abbiamo creduto ad una Divinità che è grande perché fa quello che vuole e vendica i torti degli uomini: chi ha familiarità con la cultura greca capirà benissimo che, se davvero Dio fosse questo, ci si poteva fermare alle considerazioni di Esiodo senza scomodare la tradizione israelitica o, addirittura, Gesù Cristo. Il Cristianesimo ha portato nel mondo la possibilità di “stare” dentro al mondo nella certezza che “niun vede il mio dolor, Tu ‘l vedi, o Dio”, nella certezza — insomma — che il dolore dell’uomo e l’ingiustizia trovassero spazio e accoglienza nel cuore di Dio.
Questo stare e questo “poter essere” che è donato all’uomo dalla Misericordia di Dio dentro tutte le circostanze è il presupposto di ogni cambiamento. Uomini come Dario Fo o Bob Dylan hanno intuito che quella del potere era una falsa promessa, che il potere inteso come onnipotenza porta sempre con sé solitudine e meschinità e hanno sbeffeggiato, o drammaticamente cantato, questa sproporzione del cuore umano dinnanzi ad un Potere sordo e ingordo rispetto alle ferite e alle povertà degli uomini. Ciascuno lo ha fatto in modo diverso, a volte in modo più ideologico o più “onirico”, ma entrambi hanno percepito questo svilimento dell’umano che ogni Potere ha perpetrato nel secondo dopo guerra e lo hanno denunciato.
Certo, per entrambi era la giustizia la via d’uscita, entrambi cercavano la giustizia, ma — nel corso della loro opera — hanno dovuto molte volte ammettere che la giustizia che cercavano, ovvero la soluzione di tutti i problemi, non era altro che un’utopia. Per questo la vera domanda rivoluzionaria è, ancora oggi, quella che Gesù pone al termine della pagina evangelica: “Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”. Quando Dio manifesterà la Sua Presenza ci saranno ancora occhi capaci di riconoscerla? Sapranno gli uomini, dentro un tumore, un campo di concentramento, una strage o una calamità, riconoscere la Presenza Disarmata di Dio che — dentro tutto — continua a stare e ad accogliere il nostro cuore?
Non è una domanda da poco: educare a questo riconoscimento amoroso di una Presenza che c’è e che sta è la vera sfida educativa del nostro tempo, è il Premio Nobel per cui tutti siamo chiamati a concorrere. Con le nostre canzoni e con i nostri tormenti.