Il capolavoro di Ludovico Ariosto compie cinquecento anni. Era infatti il 1516 quando l’Orlando Furioso fu pubblicato nella sua prima versione; l’autore poi continuò a lavorarci fino alla edizione definitiva uscita nel 1532, un anno prima della sua morte. L’immenso poema cavalleresco/amoroso (quasi quarantamila versi) è una miniera inesauribile di racconti che si intrecciano, di storie che si intersecano, di personaggi dai più diversi temperamenti. Tra tutte le vicende emerge, ovviamente, quella del paladino Orlando, che dà il titolo all’opera. Egli è un innamorato (come nel titolo del poema di Matteo Maria Boiardo da cui l’Ariosto prende le mosse), che diventa furioso, cioè ammattisce, perde il senno, per una delusione d’amore. Egli crede di essere ricambiato dall’amata Angelica, ma un giorno giunge in un bosco dove sulle cortecce è scritto il nome di lei intrecciato con quello di Medoro, un semplice soldato che effettivamente — Orlando ne avrà da lì a poco conferma da testimoni diretti — ha sposato Angelica. Il Paladino piange e si dispera — “Di sé si maraviglia, ch’abbia in testa / una fontana d’acqua sì vivace, / e come sospirar possa mai tanto” —, poi vaga agitato nel bosco ed “afflitto e stanco alfin cade ne l’erba, / e ficca gli occhi in cielo e non fa motto” per tre giorni, durante i quali “di crescer non cessò la pena acerba” tanto che lo trascina “fuor del senno”. Scrollatosi dal torpore Orlando ammattito si spoglia dell’armatura e fin dei vestiti, e sfoga tutta la sua rabbia sradicando gli alberi come fossero fuscelli. Con questa immagine della furibonda ira d’un pazzo Ariosto chiude il canto XXIII e passa ad un’altra storia.
A salvare Orlando ci penserà (canto XXXIV) Astolfo, forse il più bizzarro dei cavalieri cristiani che, accompagnato da san Giovanni, arriva sulla luna dove, in un “vallon fra due montagne istretto” vanno a finire tutte le cose perse dagli uomini per colpa loro, del tempo o della sorte. Fra queste una gran montagna di senni perduti, che sono come delle ampolle etichettate in cui è rinchiuso un “liquor sottile” che evapora all’apertura della fiala. L’enorme quantità di senni perduti — commenta Ariosto — appare strana perché a tutti noi sembra di averlo, il senno, e quindi non chiediamo mai a Dio di conservarcelo. Astolfo stesso trova un’ampolla con un po’ del suo giudizio, la apre, ne inspira il contenuto e, dice sornione Ariosto, “lungo tempo saggio visse” finché un nuovo errore “gli levò il cervello”.
La più grande delle ampolle contiene tutto intero il senno perso da Orlando, Astolfo la prende e aspetta il momento opportuno per rinsavire l’amico. Cosa che avviene, nel canto XXXIX, non senza difficoltà; si trattava infatti di immobilizzare il fortissimo cavaliere armato di enorme bastone, legarlo e fagli inspirare l’etereo contenuto dalla fiala portata dalla luna. Ma alla fine, un po’ acciaccati per le botte prese, i cavalieri ci riescono e — “maraviglioso caso!” — la mente di Orlando torna come prima, anzi il suo “intelletto / rivenne, più che mai lucido e netto”.
Mi amareggia, però, la conclusione dell’amore con Angelica, che mostra una saggezza rinunciataria, una ragione che per conservarsi (temporaneamente, come per Astolfo?) deve eliminare qualcosa. Dice il poeta che Orlando “tornato più che mai saggio e virile, / d’amor si trovò insieme liberato; sì che colei, che si bella e gentile / gli parve dianzi, e ch’aveva tanto amato, / non stima più se non per cosa vile”. Il rinascimentale Ariosto non riesce ad immaginare un amore redento.