Non volle affatto che la sua Grazia abbisognasse di qualcuno. In vita sua, mai accettò di diventare proprietà-privata di alcuno, nemmeno dei suoi più fidati amici. Per questo organizzò il suo mondo-di-parabole: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano” (Lc 18,9-14). Una storia d’uomini, d’intenti. Non solo. Ai suoi attori-protagonisti non regala mai la luce solo per svagare i sensi ma perché, ridendo di loro e con loro, ognuno faccia la sua scelta: “Ascoltarla, codesta parola, non è nulla; accoglierla con amore non è nulla: custodirla è tutto. Custodirla contro lo spirito impuro, uno e molteplice, formicolante” (F. Mauriac). Dio — così duro coi farisei, così dolce coi piccoli — nel frattempo si tiene libero: non è tenuto a nessuna giustificazione in merito.

Racconta storie per raccontare di Lui, dei suoi misteri, dei modi variopinti che gli uomini hanno per ri-volgersi a Lui. Mai un tentativo, da parte sua, di fare impressione sull’uditorio. Sulle labbra solamente parole scarne, pancia-a-terra, come di chi ha udito ben affinato. Nel mondo fariseo: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini“. In quello pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore“. Farsi belli abbruttendo gli altri — lavando bene i piatti, pulendosi i gomiti, non mangiando carne il venerdì, carciofi a colazione — è una logica che nei Vangeli non arreca salvezza: col Cristo nessuno dev’essere generale se prima non ha prestato servizio nei ranghi. Diventare presenti a se stessi — ch’è la grande grazia della lucidità, il costringere il peccatore a rimasticare la sua vergogna — questa sì che è cagione di salvezza: “Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificatoL’altro, a ragione di logica, non-giustificato: una mezza-condanna, dunque. A far la differenza tra salvezza e dannazione è una sfumatura nell’uso dei pronomi, quelli più elementari: l’io e il tu. Dall’io — “Io ringrazio, io non sono come lui, io digiuno, io pago” — al tu: “(Io pecco), tu perdonami. Fino a sfidare il buon senso dando del tu a Dio: questo è il fatto serio della preghiera, la gran eversione che i bastardi annotarono sul conto del Cristo come gran-bestemmia. Un Dio per i miserabili: questo no, era troppo.

Nella guerra franco-prussiana — si viveva la stagione nella quale la Francia prendeva botte ovunque — sono in molti a bussare al convento per parlare con Bernadette: le chiedono risposte decisive, finali. Nel 1870 il cavaliere Gougenot des Mousseaux s’informò se alla grotta di Lourdes avesse avuto rivelazioni in merito al futuro della nazione. 

La santa-donna disse no, nemmeno i prussiani-alle-porte le incutevano paura: “Io non temo che i cattivi cattolici” rispose. I cattivi-cattolici, l’altra faccia della cattiveria-dei-buoni: di chi vuol possedere a tutti i costi una cosa la cui bontà non è sua, di chi è disposto a tramutare anche Dio in proprietà-privata, fino ad ammazzare Dio in nome di Dio. Fino al punto da tener l’uomo in schiavitù, vendendogli come carità ciò che, in realtà, altro non è che l’egoismo di far diventare grande se stesso rimpicciolendo il fratello: “Per guadagnarsi il titolo di benefattori — scriveva, con penna ruggente, don Primo Mazzolari —, per farsi pagare il servizio di recupero, lo buttano a terra e lo fanno a pezzi, l’uomo”. In corso d’opera, l’uomo ha mostrato d’aver molti corteggiatori e ben pochi amici: Cristo gli è amico, ci parla con franchezza, con sincerità.

Più che a dare, aver fede sarà questione d’esser pronti a ricevere: non sono io che faccio-cose-per Dio — “Dio, ricorda bene cosa ho fatto per te” —, è Dio che fa-cose per me, nobis quoque peccatoribus. Iniziò così, nel paese delle parabole, il più beffardo tra gli sgarbi di Cristo ai farisei: il più piccolo, in fronte al più grande, diventerà eterno. La storia cambia verso: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltatoDatemi il vostro nulla, vi darò il mio Tutto: il contrario — la cattiveria dei buoni — impauriva anche santa Bernadette.