Come mi sembrava lontano, quando lo lessi per la prima volta, il rimpianto amaro dell’antichissimo poeta greco Mimnermo! Avevo sedici anni e, in prima liceo (come si chiamava allora il terzo anno delle superiori dopo il biennio del ginnasio), cominciavamo a studiare la letteratura greca ed eccoci di fronte (dopo Omero, ma le sue storie le conoscevamo già) ai cosiddetti “lirici” e ai loro brevi, intensi, frammenti. Il sesto di Mimnermo cantava: “Ah se così, senza malattie e vergognosi acciacchi, giungesse a sessant’anni il mio turno di morte!”. Che pensieri strani, ci dicevamo in classe, venivano a quest’uomo! Che lontananza siderale tra quei “sessant’anni” e la nostra giovinezza!
Eppure, autunno dopo autunno, quella incredibile lontananza si è fatta presente. Autunno dopo autunno è diventato consapevolezza familiare il contenuto del secondo frammento del poeta greco (lo cito nella traduzione di Salvatore Quasimodo): “Al modo delle foglie che nel tempo fiorito della primavera nascono e ai raggi del sole rapide crescono, noi simili a quelle per un attimo abbiamo il fiore dell’età ignorando il bene e il male per dono dei Celesti. Ma le nere dee ci stanno sempre al fianco, l’una con il segno della grave vecchiaia e l’altra della morte”.
Anche questo autunno — arrivato in ritardo, ma arrivato; le foglie lasciano il primaverile colore e prendono il giallo, il rosso, il marrone con cui cadranno dai rami — suggerisce con chiarezza che l’inesorabile scorrere del tempo conduce all’invecchiamento di tutto. Mimnermo concludeva amaramente che “Fulmineo precipita il frutto di giovinezza, come la luce di un giorno sulla terra. E quando il suo tempo è dileguato è meglio la morte che la vita”. Dopo parecchi secoli gli farà eco Giacomo Leopardi, che ne Il tramonto della luna osserva il ciclo del susseguirsi dei giorni (analogia perfetta con quello delle stagioni) e constata che alla tramontante luna succederà il sole che in seguito le farà di nuovo posto; per gli uomini non è così: “Ma la vita mortal, poi che la bella giovinezza sparì, non si colora d’altra luce giammai, né d’altra aurora”.
Stavo guardando i coloratissimi alberi di un parchetto sul tragitto per la fermata del bus e un poco di questi autunnali pensamenti mi nasceva dentro (anche perché i famigerati “sessant’anni” sono alle porte). Passa un nonno col nipotino; siccome una metà del marciapiede era appena stata rifatta, vi era rimasta quella fine ghiaietta che usano per questo tipo di operazioni. E il piccolo, fiero del suo impermeabile giallo e, soprattutto, degli stivaletti verdi, camminava sui sassolini contento come una pasqua perché i suoi passi facevano stranamente rumore. Era veramente la faccia della contentezza.
Ho pensato che, forse, l’invecchiare può essere triste (triste fino a desiderare la morte; e temo che l’eutanasia non tarderà molto ad introdursi come normale) non tanto perché ci abbandona — dice ancora Mimnermo nel primo frammento — “Afrodite d’oro”, per cui “meglio morire quando non avrò più cari gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte, che di giovinezza sono i fiori effimeri”. Triste è la perdita della semplicità infantile, della sua irripetibile innocenza, della sua universale apertura, di quella sua inesauribile freschezza che non sapremo mai recuperare. Eppure da due millenni risuona uno strano e misteriosamente affascinante invito: “Se non ritornerete come bambini…”.