Appena diciotto mesi fa le 88 Fondazioni dell’Acri hanno siglato un’autoriforma sulla scrivania del ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan. Fulcro del protocollo: l’impegno a portare stabilmente sotto un terzo – nei rispettivi patrimoni – il valore delle partecipazioni bancarie principali, storiche. Un passo ennesimo nella direzione di lungo periodo indicata dalla riforma originaria del 1990 e poi dalla legge Ciampi del 1999: sganciare progressivamente le Fondazioni dalle banche; insistere sul loro ruolo di investitori istituzionali orientati al welfare sussidiario. Si è trattato di realismo reciproco. Il governo – quello tuttora in carica – si è trattenuto dal rottamare le Fondazioni (come ha fatto invece con Popolari e Credito cooperativo), rispettandone l’esperienza maturata in 25 anni L’Acri ha fatto i conti con alcuni casi di insuccesso grave (anzitutto Mps e Carige) e con la crisi finanziaria che ha falcidiato patrimoni, profitti, erogazioni.
Domani i due firmatari dell’accordo – Padoan e il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti – si ritroveranno per fare il punto della situazione alla 92esima Giornata del Risparmio: con loro il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e il presidente dell’Abi. Antonio Patuelli. Dalla primavera 2015 gli sviluppi della crisi bancaria – soprattutto in Italia – hanno mandato in pezzi scenari, obiettivi, scelte politiche e tecniche. Fondazioni chiamate dal protocollo a ridurre le loro partecipazioni bancarie, hanno viste in pochi mesi quei pacchetti sgonfiarsi in Borsa o esplodere a causa di dissesti.
Quattro banche sono andate in default pilotato già lo scorso novembre e altre Fondazioni, dopo Mps e Carige, hanno visto andare in fumo buona parte dei loro patrimoni, al pari di migliaia di piccoli risparmiatori. Altri enti associati all’Acri, nell’occasione, hanno visto le loro banche partecipate sobbarcarsi l’onere miliardario delle quattro risoluzioni.
Sei mesi dopo due Popolari del Nordest sono state salvate da Atlante al costo di altri miliardi. Nella nascita del fondo salva-credito il ruolo delle Fondazioni è stato decisivo su molti versanti (dal coinvolgimento diretto nel finanziamento a quello delle grandi banche partecipate e della Cassa Depositi e Prestiti). UniCredit sta ora mettendo appunto un importante aumento di capitale: alcune grandi Fondazioni – residue azioniste di presidio nazionale – saranno chiamate a farvi fronte, peraltro dopo aver sopportato forti svalutazioni delle loro partecipazioni in Borsa. Interventi attivi di enti si sono registrati in altre operazioni di riassetto creditizio: dalla fusione appena decisa fra Bpm e Banco Popolare al salvataggio della Cassa di risparmio di Bolzano.
Ancora due anni fa le Fondazioni erano ancora guardate come azionisti ingombranti in banca, additate come corresponsabili di alcuni crack, considerate freddamente sullo sfondo della riforma delle Popolari, invitate a rinnovare per iscritto per iscritto i loro programmi di disimpegno. Oggi gli stessi enti sono precettati come cavalieri bianchi e reinvestono nelle banche o nelle loro sofferenze creditizie: spesso con prospettive aleatorie di protezione o incremento dei loro investimenti e soprattutto di redditività.
Le Fondazioni lo fanno certamente con poco entusiasmo, ma nessuna o quasi si sta tirando indietro. Il governo Renzi stesso, presumibilmente, farebbe a meno delle Fondazioni e e guarda loro con qualche insofferenza, come a casseforti per il momento senza alternative: ne sono prova le frizioni crescenti fra Atlante e JPMorganChase, il colosso di Wall Street cui Palazzo Chigi ha ultimamente affidato la messa in sicurezza di Mps.
E’ evidente come la difesa del sistema bancario all’interno dell’Azienda-Paese abbia imposto scelte d’emergenza. E fronteggiare una crisi grave comporta quasi sempre la rinuncia alle scelte di lungo periodo: oppure (può essere il caso di un Pd-governo che sta ricentralizzando Stato e vita civile) la rinuncia momentanea a cambiare radicalmente quelle scelte. Non sarebbe peraltro la prima volta che un governo mette in agenda un “superamento” del sistema-Fondazioni: ci ha provato, dal centrodestra, Giulio Tremonti nel 2001. Il rapporto fra Fondazioni e poteri pubblici e quindi fra Fondazioni e sistema bancario fu oggetto di un confronto politico-istituzionale duro ma alla fine produttivo.
Le sentenze della Corte Costituzionale del 2003 hanno disegnato un “ordinamento delle Fondazioni” abbastanza chiaro. Gli enti sono corpi intermedi paradigmatici della sussidiarietà funzionante, soggetti privati del terzo settore: non “diretti” ma soltanto “vigilati” dal Tesoro. La presenza pubblica è fissata dai singoli statuti; non può essere prevalente rispetto alle rappresehtanze della società civile; guarda essenzialmente agli enti di territorio e non allo Stato; è concentrata nella fase di nomina dei trustee delle Fondazioni; non s’ingerisce nella gestione di patrimonio e nella politica delle erogazioni.
L’amministrazione “sana e prudente” del patrimonio da parte degli organi di governo delle Fondazioni è d’altronde inderogabile: qualsiasi impiego (anche il mantenimento delle quote bancarie principali o la loro ricostituzione) non può discostarsi dalle migliori pratiche di un investitore istituzionale. Un patrimonio “civico” non può essere esposto a rischi non controllati e la sua gestione deve puntare alla generazione di un reddito sostenibile, per alimentare le erogazioni di welfare sussidiario sui territori. Dove fra l’altro le nuove povertà (italiane e non) si estendono a macchia d’olio.
Puo darsi che domani non sia ancora il momento opportuno per una riflessione estesa su questo ennesimo passaggio nell’ancora breve storia delle Fondazioni italiane: la crisi bancaria nazionale è probabilmente al suo culrmine. Ma sarebbe certamente un errore – da parte di tutti i protagonisti della Giornata del Risparmio – lasciare le Fondazioni in balìa delle emergenze.