Proprio vero che le buone notizie molto spesso non fanno notizia. Pur vivendo in Russia, si può non rendersi conto della portata di fenomeni che crescono e si dilatano senza farsi troppa pubblicità, come quello dell’attività caritativa e assistenziale che le comunità cristiane stanno sempre più ampiamente assumendosi.
Per me la finestra su un’altra faccia della Chiesa russa, finora inedita, si è aperta incontrando Margarita Neljubova, che da anni lavora in questo settore alle dipendenze del Dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca. Un incontro che risale alla decisione presa qualche mese fa di cooperare — ortodossi e cattolici insieme — per rispondere a bisogni sempre più incalzanti, come quello dell’educazione, della “cura” in senso lato di malati, anziani, persone sole, ragazzi “difficili”, famiglie dissestate e così via, ma anche e soprattutto per capire in che cosa consista la specificità della “cura” cristiana, che cosa significhi accompagnare e donare una speranza a persone altrimenti disperate, che non possono “rimandare la vita” a quando avranno risolto i propri problemi, non possono contare su un’altra dimensione di tempo e un’altra prospettiva se non quella dell’istante presente, con il suo dolore e le sue difficoltà.
L’Unione Sovietica andava orgogliosa della propria sanità fisica e morale: “da noi non ci sono prostitute”, mi sono sentita dire negli anni 80, anche se non sapevo spiegarmi chi fossero tutte quelle signorine che sciamavano di sera negli alberghi per stranieri. Ma l’assenza più vistosa era quella di disabili e handicappati, invisibili perché rigorosamente separati dalla società, gestiti dallo Stato che spingeva perché fossero abbandonati alla nascita dalle famiglie e li segregava in appositi istituti.
Più in generale, tutta la questione sociale, assistenziaria, educativa, era accentrata nelle mani dello Stato, e Chiesa e società non avevano — e non potevano avere — voce in capitolo: era uno degli assiomi per ridurre la popolazione in una condizione “minorile”, di dipendenza fisica e psicologica da uno Stato paternalista e autoritario che se ne assumeva ogni responsabilità.
Proprio questo ha fatto sì che per anni, dopo la caduta del regime, alla società civile e alla Chiesa mancassero sia la competenza nell’affrontare questi problemi, sia anche la consapevolezza di essere un soggetto in diritto di intervenire.
Oggi la situazione è radicalmente mutata, ma continua a restare drammatica: alla conclamata tutela dei principi tradizionali della famiglia, della vita ecc. non solo non si accompagna un’adeguata politica sociale, ma, come ha commentato sinteticamente il premier Medvedev presentando il bilancio del 2017, “continuiamo a ottimizzare le spese del bilancio, tagliando le spese meno efficaci”. Infatti, mentre un quarto delle spese rientra sotto la voce “Top secret”, vistosi tagli sono stati operati, ad esempio, nel settore della sanità: verranno stanziati 362 miliardi di rubli contro i 544 attuali (il finanziamento dei luoghi di degenza sarà tagliato del 39%, da 243 a 148 milioni di rubli; le spese per gli ambulatori passeranno dagli attuali 113,4 miliardi a 68,995, e via di questo passo).
Associazioni di volontariato e comunità cristiane si trovano in vari casi nella necessità di supplire alle gravi lacune esistenti nelle strutture sanitarie e assistenziali statali, ma paradossalmente questa è divenuta talvolta anche un’occasione per recuperare le proprie tradizioni e stringere nuovi rapporti ecumenici.
Ad esempio, molte esperienze di “diaconia” che stanno emergendo oggi si rifanno a Elizaveta Fedorovna, principessa tedesca luterana passata all’ortodossia all’atto del matrimonio con un esponente del casato imperiale dei Romanov. All’indomani dell’attentato che nel 1905 dilaniò suo marito sulla Piazza Rossa, Elizaveta si fece monaca fondando un ordine innovativo per la Russia, le Suore della carità di Marta e Maria: il primo ordine femminile che poneva al centro del proprio carisma le opere di misericordia.
Elizaveta Fedorovna venne uccisa dai bolscevichi il 18 luglio 1918 e le sue suore furono disperse. Ma da alcuni anni questo carisma ha ripreso vita, attraverso le Suore della carità e mille altri rivoli che – come ha illustrato la Neljubova al Convegno “Il dono inatteso della misericordia” recentemente organizzato da Russia Cristiana — hanno subito una profonda trasformazione, quantitativa e qualitativa.
Da iniziative sporadiche e disorganizzate si è passati a programmi a breve e lungo termine gestiti da associazioni, fraternità e gruppi parrocchiali che si assumono un servizio caritativo specifico, coinvolgendo un numero sempre maggiore di volontari e operatori socio-sanitari. Alle forme più tradizionali di operato caritativo si affiancano modalità di lavoro che cercano di rispondere ai nuovi bisogni emergenti nella società (tossicodipendenza, Aids).
I numeri delle strutture ortodosse sono raddoppiati anche solo rispetto a cinque anni fa, pur restando una goccia nell’oceano: si contano oltre 400 gruppi di volontari, e più di 300 fraternità che vedono impegnate circa 2600 persone; oltre un centinaio di case di accoglienza per bambini, 30 ricoveri per anziani, un’ottantina di luoghi di accoglienza per situazioni temporanee di emergenza, 70 centri di riabilitazione per tossicodipendenti e altrettanti ricoveri per senzatetto; infine, alcune decine di servizi mobili di aiuto ai senzatetto e di centri di aiuto per donne in situazione di emergenza.
Un fervore di attività che non hanno però l’ingenuità di pensare che possono bastare a se stesse: proprio di qui stanno nascendo sempre nuove iniziative di collaborazione con associazioni e movimenti cattolici impegnati in questi stessi settori — non innanzitutto sugli strumenti specifici o le strategie da adottare, ma sulla “teologia della diaconia”, per usare un’espressione ripetutamente usata dagli interlocutori ortodossi, e cioè sull’anima della misericordia cristiana. Ritornare insieme a Cristo per aiutarsi a riscoprirlo nel volto di chi soffre. E così fiorisce l’ecumenismo della misericordia.