L’Italia è un paese per vecchi (dentro?)

Sempre meno nati, mentre per la prima volta i giovani sono più poveri degli anziani. E' una emergenza a cui bisogna rispondere in modo strutturale. GIORGIO VITTADINI

Che l’Italia stia perdendo la sua giovinezza è un dato accertato e in costante aumento: nel primo semestre del 2016 ci sono stati in tutto 222mila nati, il 6% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso con un saldo naturale (nati-morti) in rosso di 93mila unità.

Tuttavia, secondo i dati della Caritas italiana contenuti nel Rapporto 2016 su povertà ed esclusione sociale, per la prima volta si è verificato un fatto del tutto inedito. La povertà assoluta (la forma più grave di indigenza, quella di chi non riesce ad accedere a quei beni e servizi necessari per una vita dignitosa) è aumentata, nel corso del 2015, soprattutto tra giovani e giovanissimi diminuendo in quella fascia di età che fino a poco tempo fa era la più colpita, adulti e anziani. I dati parlano di una incidenza della povertà nella fascia di età compresa tra i 18 e i 34 anni pari al 10,2% delle persone; nella fascia tra i 35 e i 44 anni è l’8,1%; tra i 45 e i 54 anni è il 7,5%; tra i 55 e i 64 anni è il 5,1% e dai 65 anni in su il 4%. 

Non  è solo un dato economico: significa soprattutto la mancanza di un progetto di vita per il futuro. Secondo il Rapporto giovani 2016 dell’istituto Toniolo solo un “under 25” su tre progetta di sposarsi nei prossimi tre anni e ancora meno sono gli “under 25” che prevedono di avere un figlio entro i prossimi tre anni (circa il 18%). Questi dati ci danno un quadro della realtà giovanile in Italia che è realmente problematico. I motivi? 

Se evidentemente la povertà è legata alla mancanza di lavoro questa a sua volta è legata alla mancanza di istruzione. Secondo l’Istat nel 2015 nella fascia tra i 15 e i 34 anni il tasso di occupazione era del 28,8% per chi ha raggiunto al massimo la licenza elementare  e del 23,3% per chi ha studiato fino alle medie a fronte di un 46,1% per chi ha raggiunto il diploma superiore e del 57,4% per chi si laurea. Si capisce allora quanto sia connesso alla povertà giovanile anche il fenomeno degli abbandoni scolastici che interessa 167.000 ragazzi all’anno che, stante quello che abbiamo detto, hanno più probabilità di rimanere disoccupati. 

Si può trarre quindi una prima conclusione. La lotta alla povertà si fa nel breve periodo sostenendo quelle realtà come il Banco Alimentare, le Caritas e le associazioni non profit che permettono alla gente, giovani o vecchi che siano, di non soccombere. Tuttavia, nel lungo periodo, per lottare in modo strutturale contro la povertà giovanile non servono i bonus una tantum concessi dal governo di turno. Occorre piuttosto migliorare il livello di istruzione, quantitativamente e qualitativamente, perché un giovane che conosce è un giovane più capace di lavorare e costruirsi un futuro.

In quest’ottica non ci si può stancare di ripetere che non basta incrementare la spesa per l’istruzione o assumere personale scolastico senza che ve ne sia un reale bisogno. Occorre piuttosto non accontentarsi di trasmettere nozioni, ma educare personalità che si lancino con competenza e passione nell’agone della vita, supportare chi si batte contro l’abbandono scolastico, favorire  l’accesso all’istruzione universitaria ai tanti che non possono permetterselo per difficoltà economiche

C’è però un altro elemento che spiega la povertà giovanile. Tradizionalmente il migliore ammortizzatore sociale capace di aiutare persone in crisi, anziani, malati e giovani è sempre stata la famiglia. Anche adesso, a fronte dei giovani che emigrano, il 60% di chi ha tra i 25 e i 30 anni vive con i genitori. 

Ma la famiglia è sempre più povera. Secondo la Banca d’Italia tra il 2006 e il 2014 la ricchezza netta familiare media è scesa in termini reali del 15% e quando il capofamiglia è più giovane, guadagna di meno. Il costo della crisi unita alla mancanza di qualsiasi politica seria a sostegno della famiglia ha colpito duramente: prezzi più elevati per la spesa alimentare e di affitto tanto che una recente ricerca ha spiegato come carne e pesce stiano scomparendo dalle tavole dei ceti meno abbienti come avveniva in passato quando la bistecca si mangiava solo alla domenica. 

Non è solo un fenomeno di contingenza economica, ma anche frutto di scelte politiche che hanno impoverito in tutti i modi la famiglia italiana, riducendo gli interventi a sostegno della natalità e del supporto alla gioventù. Anche in questo caso non si può continuare con l’assistenzialismo dei bonus bebè e altre iniziative analoghe. Se si vuole supportare la famiglia si deve riconoscere il suo ruolo cruciale nell’economia come generatore di capitale umano (giovani che incrementano la loro conoscenza) e supporto ai giovani finché non siano autosufficienti. Occorrono interventi non occasionali, ma organici che la supportino in questo sforzo economico come fanno altri paesi, ad esempio la Francia. 

Ma anche la lotta per l’istruzione e la famiglia rischiano di essere inutili nella lotta contro la povertà giovanile se non avviene qualcosa di profondo e radicale. L’Italia è stato un paese a lungo povero come dimostrano i suoi 26 milioni di emigrati. Nel secolo scorso tuttavia, i genitori e i nonni hanno saputo trasmettere ai loro figli la voglia di riscattarsi, di uscire dalla condizione di indigenza per l’impeto della fede, per la passione per un ideale, o semplicemente per il desiderio di migliorare la propria vita, quella dei propri figli, dei luoghi dove si era nati e da cui si era andati via.     

L’Italia è sempre più un paese per vecchi soprattutto perché spesso gli adulti sembrano vecchi dentro, incapaci di trasmettere quel fuoco che è l’impeto di battersi per un cambiamento positivo per l’esistenza e i giovani sembrano precocemente rassegnati, passivi, abulici. E allora ognuno di noi si chieda: cosa può sostenere oggi la speranza dei giovani italiani? 

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