Amo la tecnologia. Amo gli aggeggi che in poco tempo compiono meraviglie. Da bambino, per me come per moltissimi altri, c’erano pochi piaceri più apprezzati di quello di guardare le gru che scavano, le macchine che tagliano, quelle che mettono giù l’asfalto.
Leggo tanti articoli sulle nuove tecnologie che risolvono problemi sanitari, problemi gestionali, problemi di trasporto. Seguo con passione simile a un tifoso della Juve un ingegnere famoso in California che sta costruendo un modello in scala per un nuovo sistema di trasporto capace di portare le persone a 600 chilometri di distanza, la stessa che c’è tra San Francisco e Los Angeles, in 30 minuti.
E tutt’ora, all’età di 58 anni, una delle emozioni più forti che ho mai provato è stato la prima volta che ho scritto una tesina (45 pagine) su un computer e ho visto — dopo aver messo dentro tutte le informazioni per le note a piè di pagina — la macchina stessa impaginare tutto lo scritto perfettamente. Era un lavoro che sulla macchina da scrivere mi sarebbe costato un sacco di ore.
Però sono anche molto cosciente che in mezzo a tutto questo c’è un pericolo per me, per noi. Ogni anno, ogni mese ci sono nuove tecniche per risolvere problemi, gravi e meno. È come se prima o poi ci saranno i mezzi per risolvere ogni difficoltà, basta investire ed aspettare.
Quante volte ho accompagnato persone malate che seguivano con ansia angosciante le ultime novità, sperando di sentire che era arrivata quella tecnologia che avrebbe salvato loro la vita. Il fatto è che, senza accorgercene, ci abituiamo a guardare alla realtà stessa come un problema che si può risolvere, se solo abbiamo in mano lo strumento adeguato. Tutto viene pensato entro uno schema improntato alla tecnologia.
Poco tempo fa ho celebrato il matrimonio di una bella coppia di sposi, tutti e due ingegneri gestionali molto bravi, nel risolvere con grande competenza problemi grossi e piccoli, spazzando via gli ostacoli e permettendo all’azienda di produrre con più efficenza. Durante la predica li ho guardati e li ho lodati per la loro bellezza, giovinezza, amore e fede. Poi però ho detto anche che comunque si sviluppi il loro matrimonio, esso non è e non sarà mai un problema da risolvere, che qualunque strada prenda, lo sposo o la sposa non sarà mai un problema da risolvere, che comunque vada la vita non è un problema da risolvere.
Un rapporto può contenere tanti problemi, ma sopratutto un rapporto vocazionale, quali che siano i problemi che insorgono, non è un enigma da risolvere, ma una strada da percorrere per arrivare alla casa del Padre. Perché il valore della realtà e della vita non può essere neppur minimamente misurato dall’assenza o meno di problemi, ma dall’invito implicito o esplicito a camminare verso il destino, quel rapporto definitivo con la vita che si chiama regno di Dio.
Le letture nella liturgia ambrosiana questa settimana parlano di un invito a una festa dove la vita che vi viene gustata non può essere tolta nemmeno dalla morte stessa (Is. 25). Nel Vangelo Gesù racconta la parabola di un re che fece una festa di nozze per suo figlio. Al suo invito in pochi risposero, presi dai loro problemi da risolvere.
Ma l’incontro con Gesù porta nella nostra vita proprio questo cambiamento: la speranza non sta tanto nella nostra capacità di risolvere i problemi. Questa posizione è violenta e se la assecondiamo, finiamo per scoprire che il vero problema da risolvere siamo noi stessi. E l’unica definitiva “soluzione” alla vita è la morte. La morte risolve tutto. Ecco perché l’aborto, l’eutanasia, l’omicidio e il suicidio. Ma la vita non è un problema; è un invito, e accogliendo l’invito alla festa delle nozze del Figlio ci mettiamo in cammino per la casa del Padre. Le circostanze nella vita hanno come contenuto ultimo questo invito.
I “miracoli” della tecnologia ci faranno molto male se ci renderanno sordi a questo appello.