I giorni appena trascorsi sono stati, liturgicamente parlando, decisamente “angelici”. Ieri era la memoria (non è stata celebrata perché domenica) degli Angeli custodi, mentre lo scorso giovedì, il 29, è stata la festa degli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. I primi ci riportano agli anni dell’infanzia, quando ci veniva spiegato che Dio era così buono da mettere a fianco di ciascuno di noi (da un lato, mentre dall’altro s’intrufolava un diavoletto tentatore) questo simpatico personaggio fatto di aria (“puro spirito” ci insegnavano al catechismo) incaricato di proteggerci dai pericoli materiali e spirituali. Poi, diventati grandi, ce ne siamo dimenticati o abbiamo finito per declassarli da persone a simbolo evanescente di una genericissima bontà divina. Quanto ai tre angeli “super” (“arci”, appunto) ricordiamo vagamente che compaiono qua e là nella Bibbia. Michele è quello che lotta con drago rosso nell’Apocalisse, Gabriele è quello dell’Annunciazione a Maria e Raffaele c’entra con la storia di Tobia raccontata nell’omonimo libro veterotestamentario.
130 anni fa, nel 1886, papa Leone XIII introdusse in tutta la Chiesa una preghiera da recitarsi in ginocchio al termine della messa. È una preghiera in cui si chiede a san Michele arcangelo aiuto e protezione per la Chiesa contro le insidie del diavolo che, dice la lettera di san Pietro, “è come un leone ruggente che va in giro cercando chi divorare”. Effettivamente la nostra vita non è tranquilla e abbiamo bisogno — anche, e forse soprattutto, da adulti — di una protezione, di una custodia. Non tanto da pericoli esterni di carattere fisico, ma dall’attacco di qualcosa di infinitamente più profondo ed oscuro: la menzogna. Il demonio è il “padre della menzogna” ed è contro di essa che Michele con le sue schiere sostiene la sua diuturna battaglia. Il cui campo — lo sappiamo bene — è la nostra incerta ragione e il nostro ondeggiante cuore, prima ancora che la lotta contro nemici provenienti da fuori (che ci sono). Anzi sappiamo anche bene — pur facendo spesso finta di niente — che incaponirci nel puntare le armi contro il nemico esterno è un facile (e inefficace) stratagemma per evitare di guardare in faccia qual è l’autentica battaglia da fare.
L’arcangelo Raffaele — che significa “medicina di Dio” — ci è necessario perché nelle battaglie scorre sempre un po’ di sangue e le ferite debbono essere diligentemente curate, come lui curò la cecità dei pio padre di Tobia. Ma più ancora è necessario l’arcangelo Gabriele, perché ha annunciato che “la molt’anni lagrimata pace” (Dante, Purgatorio, X, 35), la liberazione definitiva dalla menzogna, lungamente e dolorosamente cercata dagli uomini, è arrivata; è arrivata tanto vicina da farsi bambino nel grembo di una ragazza. Gabriele annuncia quindi nella mia storia presente che la battaglia contro il male e la menzogna ha già un vincitore, anche se il drago pur sconfitto — e perciò più “infuriato” (dice l’Apocalisse) — può combinare ancora parecchi danni. Ma ormai sappiamo che la sua “azione è permessa dalla divina Provvidenza, la quale guida la storia dell’uomo e del mondo con forza e dolcezza” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 395); anche la fortezza dolce dell’innominato e discretissimo angelo che ha il compito di custodire proprio me.