Offro tre spunti di lettura in vista del prossimo 2 novembre, commemorazione dei defunti. Nel Cahier del 6 dicembre 1907 Charles Péguy scrive: “Il mondo moderno avvilisce. Avvilisce la città; avvilisce l’uomo. Avvilisce l’amore; avvilisce la donna. Avvilisce la razza; avvilisce il bambino. Avvilisce la nazione; avvilisce la famiglia. Avvilisce anche, è riuscito ad avvilire ciò che al mondo c’è di più difficile da avvilire, perché è qualcosa che ha in sé una sorta particolare di dignità, come una incapacità singolare di essere avvilita: avvilisce la morte”. Il sanguigno scrittore francese si riferiva, come spiega subito dopo, alle evidenti falsità di cerimonie laiche – come la traslazione di un defunto al Pantheon; ma si potrebbe pensare a cose analoghe ai nostri giorni – che si caricano di facili emozioni per evitare l’imbarazzante silenzio che per forza ci prende di fronte alla morte. Da allora l’avvilimento della morte — fatto di dimenticanza, di spettacolarizzazione, di ostentazione banalizzante — è andato molto avanti. Péguy scriverà qualche anno dopo: “C’è dentro la morte stessa, in lei stessa, e quasi, e come indipendentemente dal morto, fosse un tuo amico, fossi tu, fosse tuo padre e fosse tua madre, un tale residuo di mistero, un tale residuo misterioso, un centro, un magazzino misterioso, un abisso tale, una rivelazione di mistero tale che ogni uomo se ne accorge”, ma forse son riusciti a non farcene accorgere più.
Nel novembre del 1816 Giacomo Leopardi, poco più che diciottenne, era persuaso che i malanni di cui soffriva lo avrebbero presto portato alla morte. Scrisse allora in terzine dantesche una “cantica” intitolata Appressamento della morte. Si immagina di passeggiare in campagna e di venir colto da un violentissimo temporale, in mezzo al quale gli appare il suo angelo custode che gli annuncia la morte imminente e, di fronte al turbamento del giovane, gli mostra da un lato la turba infelice di coloro che hanno seguito falsi idoli: amore, avarizia, errore, guerra e tirannide, e dall’altro la gloria dei beati in paradiso. L’ultimo canto è l’addio alla vita del poeta, sconsolato perché “Sento che ad alte imprese il cor mi chiama” e non potrà realizzarle. Il giovane recanatese è sincero quando prega Dio e la Madonna di aiutarlo “ne l’orrendo passo”, ma si capisce che questa fede per cui “a morir non son nato, eterno sono” sta per dileguarsi. Resta la tremenda e onesta constatazione del verso di Vittoria Colonna posto da Leopardi in epigrafe: “Certi non d’altro mai che di morire”.
“Si rivolse poi al medico: ‘Coraggio, frate medico, dimmi pure che la morte è imminente; per me sarà la porta della vita’”. Così racconta Tommaso da Celano nella Vita seconda di san Francesco d’Assisi. Se la morte è “porta della vita”, si capisce come mai il Poverello “trascorse i pochi giorni che gli rimasero in un inno di lode, invitando i suoi compagni dilettissimi a lodare con lui Cristo. Invitava pure tutte le creature alla lode di Dio, e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino”. Quei “certi versi” sono, è chiaro, il Cantico delle creature dove san Francesco sorprendentemente chiama nel coro dei lodanti anche colei che per tutti, dice il Celano, è “terribile e odiosa”, cioè “sorella nostra Morte corporale”.