Più di due giorni di agonia nel pronto soccorso di un ospedale romano, il San Camillo, per morire senza dignità tra il via vai di malati e parenti. Queste le ultime 56 ore di un malato terminale di cancro che il figlio, un giornalista di Askanews, ha voluto raccontare in una lettera al ministro della Salute Beatrice Lorenzin.
Non è soltanto uno scandalo, un fatto deprecabile di apparente malasanità contro cui arrabbiarsi, ma qualcosa di più. La lunga agonia di un malato terminale avvenuta in un pronto soccorso della Capitale, alla mercé di tutto e di tutti per cinquantasei ore prima di morire, non merita attenzione solo per le modalità selvagge con cui è avvenuta — modalità non del tutto chiare ma che hanno spinto il figlio giornalista a scrivere una lettera piena di compunta indignazione al ministro della Salute — bensì per quello che essa rappresenta.
L’indifferenza verso un uomo che se ne va, la non-curanza generale che lo ha — secondo le testimonianze — circondato fino all’ultimo, raccontano con efficacia senza pari il modo con cui il nostro tempo guarda alle parti più fragili e moribonde dell’Io, ridonandoci la consapevolezza del peccato contro il Dio Creatore, contro l’umanità stessa che Dio ci ha consegnato. Troppe volte “pezzi” di noi, invece che essere curati ed accompagnati, guardati e ascoltati, sono altresì lasciati morire nel letto della nostra anima, imprigionati in un sistema che “lascia perdere” quello che non va, che non piace, che non è più giudicato rimediabile o guaribile.
Capita con le nostre miserie, con i nostri pregiudizi, con gli stessi nostri errori che commettiamo e che un po’ ci fanno schifo: l’abbandono sembra essere diventata la soluzione più veloce, come se il non pensarci, il lasciarli morire, potesse risolvere tutto.
Non è proprio così. La morte toglie vita e toglie anche una possibilità di dignità: è vero che a volte è inevitabile, che a volte ha senso “lasciare andare nella pace” le cose che sono passate o certi nostri atteggiamenti. Ma mai questo può essere fatto con violenza, con supponenza, con un certo risentimento. Anche quello che muore — soprattutto quello che muore — ha bisogno della nostra misericordia, della nostra amicizia, del nostro struggente silenzio. È tutto questo che sembra essere mancato a quell’uomo in quel pronto soccorso: era nel posto giusto, forse nelle mani giuste, ma, purtroppo, quelle mani erano quelle dell’infinita banalità del nostro male, della nostra superficialità, del nostro dovere che cerca di mettere a posto tutto senza amare niente.
Ed è questo che ha trasformato quella morte in una notizia. La mancanza di un bene non da parte di chi quell’uomo lo avevo amato come padre, ma degli sconosciuti che lo avevano avuto accanto per alcune ore — le ultime — come fratello, come uomo fra gli uomini. Una comunità che non sa più riconsegnare un “pezzo” di sé al Mistero dal quale quel “pezzo” proviene è una comunità finita, uno Stato al capolinea. Ma un uomo che non sa più voler bene a se stesso è ancor peggio, perché — senza mezze parole — rivela che è ormai pronto a trasformarsi in una bestia. Questo è il Mistero grande di Gesù Cristo: l’essere entrato nel tempo per prendere su di sé ogni brandello del nostro Io. Senza quest’assunzione non c’è salvezza, non c’è verità. Resta solo il trambusto malcelato di un pronto soccorso dove si ha il terrore di tutto. Anche di guardare, da adulti, la morte che bussa e che viene nelle nostre case, nel nostro petto, nel nostro abisso di essere uomini.