Giovani italiani alla conquista del mondo

Sono davvero dei cervelli in fuga come li definiscono tutti o quasi? In realtà i giovani che si recano a studiare e lavorare all'estero sono un esempio positivo. GIORGIO VITTADINI

Intervenendo nei giorni scorsi al convegno dei responsabili amministrativi degli atenei italiani, il presidente dell’Autorità anti corruzione Raffaele Cantone ha affermato: “Esiste un collegamento enorme fra la fuga dei cervelli e la corruzione”. Affermazione ripresa con grande enfasi un po’ da tutti. E’ questa l’unica chiave di lettura utilizzabile quando parliamo dei giovani ricercatori italiani che vanno all’estero? Oppure esiste un’altra possibilità di interpretazione del fenomeno? E’ facile infatti far leva su problematiche che effettivamente esistono nel mondo accademico italiano, peraltro senza offrire dati precisi, come ben ha sottolineato Salvatore Ingrassia su questo giornale. Ma ci sembra che più che di giustizialismo, le università italiane abbiano bisogno di una visione culturale ed economica meno miope di quella in cui versano da decenni.

Ci siamo già occupati in questa sede dei laureati che emigrano giungendo a conclusioni diverse da quelle che vanno per la maggiore. La situazione è analoga anche per chi effettua il dottorato di ricerca. Secondo recenti dati Istat, su undicimila laureati che ottengono quello che è il massimo grado di istruzione universitaria, ogni anno ne vanno all’estero tremila.

L’Italia esporta più ricercatori di quanti non ne importi dagli altri paesi:  perdiamo il 16,2% di ricercatori fatti in casa e riusciamo ad attrarre solo il 3% di colleghi di altri paesi (dati Irpps-Cnr). 

Non è un caso: nei paesi anglosassoni l’investimento in capitale umano post laurea è il cuore del sistema sociale e produttivo. I dirigenti e gli imprenditori migliori tornano all’università e con master qualificanti e specializzanti si preparano a diventare la classe dirigente del loro paese. Non solo: leggendo il sistema universitario come fosse un sistema produttivo si può dire che i paesi anglosassoni comprano i migliori semilavorati di capitale umano (i laureati migliori) di tutto il mondo e attraverso i loro dottorati ne fanno prodotti finiti (ricercatori avanzati di alto livello) permettendo al sistema della ricerca e dell’economia di eccellere. 

In sostanza, nel caso dei nostri “espatriati”, a noi rimane il costo dell’ottima istruzione impartita loro, mentre gli altri ne godono i frutti. Del resto lo si capisce osservando come la spesa per l’educazione terziaria equivalga da noi allo 0,8% in media sul Pil della Ue e allo 0,3% sul Pil nazionale. Negli Stati Uniti la spesa per l’educazione terziaria è quasi il 3% del Pil. La sola università di Harvard, secondo quanto riporta Alessandro Rosina, docente di Statistica all’Università Cattolica di Milano nel suo libro “Non è un paese per giovani”, riceve finanziamenti pari alla metà di quanto spendiamo noi per tutto il sistema accademico, cioè circa 7 miliardi di euro.  

Da tutto questo si deduce che i ricercatori non se ne vanno perché la nostra università è mediocre, corrotta, luogo di nepotismo come piace sottolineare a molti. Come potrebbe essere solo questo se i nostri ricercatori sono così apprezzati all’estero dopo essere stati preparati nei nostri atenei? Piuttosto i nostri ricercatori se ne vanno dove si investe in istruzione superiore di alto livello e in ricerca e quindi hanno stipendi, opportunità e carriere migliori, cosa che il nostro sistema non offre loro.  

Qualcosa forse sta cambiando con l’istituzione dei dottorati “innovativi a carattere industriale” nell’ambito del Piano nazionale ricerca 2014-2020 per i quali, in una prima bozza, erano stati promessi 516,8 milioni di euro, con lo scopo di “attrarre nel nostro paese un numero crescente di ricercatori italiani (attualmente all’estero, nda) e stranieri di eccellenza, rafforzando così il sistema della ricerca nazionale”. Per adesso però sono stati resi disponibili solo 20 milioni di euro destinati alle “Regioni in ritardo di sviluppo” (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) e “in transizione” (Abruzzo, Molise e Sardegna). n questo senso un segnale molto significativo e concreto arriva dall’università di Padova, dove l’ateneo ha messo a disposizione due milioni di euro per “riportare a casa” venti ricercatori che dopo essersi laureati si erano trasferiti all’estero. Un caso di “brain gain”, recupero dei cervelli, che si spera sia di esempio per altre università del nostro paese.

Abbiamo parlato del bicchiere mezzo vuoto: certamente dobbiamo fare di tutto per valorizzare in patria i nostri ricercatori. Ma se anche fosse: è davvero solo un male che i nostri giovani se ne vadano a lavorare nelle migliori università straniere? Una risposta esemplificativa c’è stata lo scorso 30 settembre all’università Bicocca di Milano durante il convegno “Biostatistica per la sanità pubblica, l’esperienza internazionale dei giovani e i bisogni del Servizio Sanitario Nazionale”. 

Diversi ricercatori laureati in biostatistica hanno raccontato il loro percorso virtuoso: tesi preparate all’estero mentre studiavano in Bicocca, dottorato e post dottorato a Harvard, al Karolinska Institutet di Solna in Svezia, all’Imperial College di Londra, all’università di Monaco. Questi giovani studiosi, come hanno raccontato loro stessi, non sono andati a lavorare in università straniere per “fuggire”, ma  perché, nella logica dell’investimento in capitale umano e del buon senso, volevano andare nei migliori posti capaci di apprezzarli. 

Oggi i nostri giovani biostatistici, come molti dei ricercatori emigrati, danno lustro alle università che li hanno formati e fanno “rete” per chi rimane a lavorare nelle università italiane consentendo ad altri giovani di fare tesi all’estero, favorendo la mobilità e gli scambi culturali fra professori, aprendo la possibilità a docenti e dipartimenti italiani di partecipare a prestigiosi progetti di ricerca internazionale. 

E’ fisiologico che in un mondo globalizzato – al di là delle carenze dei nostri master e dottorati – in tanti si muovano verso il meglio. Fa bene al paese. Anzi, bisognerebbe incentivare, come fanno già tante nazioni, i giovani a studiare e a specializzarsi all’estero instillando in loro un sano senso di appartenenza e la voglia di lavorare anche per il paese di origine, mentre chi rimane in Italia dovrebbe imparare ad aprirsi e a desiderare di costruire reti. 

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