Si sarebbe tentati di tacere dinanzi alle parole di Papa Francesco sulla situazione dei profughi, limitandosi a sottoscriverle, tanto sono intense nella loro gravità. Guardando il tutto dal lato del dolore non si può infatti che condividere, accogliere, restare inorriditi, schiacciati da tante angherie e soperchierie alle quali sono esposti tutti coloro, in particolare le donne, che fuggono dalle guerre e dai conflitti politico-religiosi. Molti profughi arrivano con una storia di orrore alle spalle, spesso fatta di pellegrinazioni infinite, di identità violate e di pedaggi pagati a contrabbandieri di ogni sorta. Dinanzi ad un tale disastro umano non si può fare altro che intervenire: è un gesto umano la cui negazione non appartiene minimamente alla cultura dell’occidente, e ancor di meno alle sue radici cristiane.

Ma in un simile scenario c’è ancora un secondo aspetto, un lato peggiore che la denuncia di Papa Francesco consente di cogliere. C’è qualcosa di più grave che sta accadendo oggi nelle nostre comunità e che non riusciamo a evitare: la si può riassumere come la produzione di un’inattesa marginalità sociale. 

Alla fine infatti delle miserie infinite della traversata o del lungo peregrinare i profughi finiscono con lo stazionare in tante strutture di accoglienza, per vivere un’attesa che può durare un tempo impreciso, spesso più di un anno. Dopo la vita a rischio della traversata, arriva così quella dell’attesa infinita, ancorata all’accertamento dell’identità e della nazionalità. Tagliati fuori dalle proprie reti sociali queste persone sono ridotte alla loro singolarità solitaria. Ricacciati in una soglia sociale dalla quale non è possibile uscire, i profughi vivono l’esperienza di una vita sospesa. 

Cacciati in una stasi indeterminata, separati da qualsiasi acquisizione di quegli strumenti che, dall’apprendimento della lingua a quello di specifiche competenze, soli consentirebbero un minimo di dialogo reale con l’esterno, una parte dei singoli che sono senza reti di appartenenza famigliare o comunitaria, possono finire con l’esporsi ad una vita di espedienti, cercando di riempire l’attesa con tutte le risorse possibili. 

In una simile situazione di marginalità umana e sociale, le micro-società si ricostruiscono da sole all’interno dei gruppi di profughi, ma lo fanno secondo criteri che sono autonomi sia da quelli della comunità di origine, sia da quella della società di accoglienza. C’è allora lo spazio per ogni marginalità possibile ed ogni devianza probabile. Nel nuovo scenario dei centri di accoglienza le reti di relazioni sociali sono tutte da ricostruire, e spesso si ricostruiscono in un ambiente socialmente incontrollato, dove i nuclei di potere illegale possono prodursi e affermarsi con estrema facilità. A questi possono aggiungersi le derive personali, caratterizzate dal cedere a comportamenti puramente reattivi. Se l’intenzione principale, quella dell’accoglienza, era certamente delle migliori, le condizioni nelle quali quest’accoglienza finisce per realizzarsi possono promuovere la regressione agli istinti primari, il rischio di restare intrappolati tanto in nuove derive personali quanto in nuove precarietà sociali. 

Se da un lato è chiaro che qualsiasi iniziativa nei confronti di queste persone tesa a superare un tale stato di fatto farebbe moltiplicare i costi al punto da essere semplicemente improponibile, è anche vero che le conseguenze di una simile inazione forzata rischiano di essere ancora più rilevanti. L’incontro con le collettività locali semplicemente non si produce, né può prodursi dal momento in cui uno dei due soggetti, ricacciato in una non-vita e maturando un senso di effettiva messa in disparte, si espone a tutte le marginalità possibili.

Qualsiasi risposta si voglia dare al problema immigratorio questa implicherà certamente la revisione profonda di simili modalità di permanenza. Queste infatti, anziché integrare, non fanno che approfondire ancora di più il divario tra i gruppi, allargando le differenze, strutturando le distanze e incrementando sempre di più una società in perenne precarietà, fatta di tante marginalità, alle cui basi c’è sempre e comunque la stessa vita sospesa.

Se è vero che l’amore e l’accoglienza fraterna superano tutto e riescono, in un miracolo d’energia, a creare ponti, resta allo Stato il dovere di far sì che quei ponti siano sempre meno lunghi, affinché chi è stato strappato dalle onde, possa non cadere nelle reti di una condizione sociale tanto improponibile quanto inaspettata.