In mezzo alla sovrabbondante massa dei commenti all’elezione di Donald Trump, due osservazioni mi hanno particolarmente fatto riflettere.
La prima era riportata dal Corriere della Sera — ritenuto il più autorevole quotidiano italiano — e diceva che quasi tutti i sondaggisti statunitensi, moltissime prestigiose reti televisive, parecchie testate giornalistiche — tra cui il New York Times, ritenuto il più autorevole quotidiano americano — si erano completamente sbagliati nel loro pronostico elettorale: tutti davano per sicura l’elezione della Clinton. La riflessione è questa: se sociologi esperti ed in possesso delle più raffinate tecnologie e metodiche di ricerca, se potenti televisioni e giornali che hanno folte redazioni e possono accedere a un’infinità di informazioni si sbagliano così maldestramente, dimostrando di non conoscere davvero il proprio paese, chi ci riuscirà? Penso che sia una salutare lezione di umiltà. “So di non sapere” diceva Socrate e così ha dato slancio ad una delle più interessanti avventure della conoscenza: la filosofia. So ad esempio — per rimanere in campo socio-politico — di non conoscere adeguatamente la città per i cui amministratori ho votato qualche mese fa; neanche so per bene quello che succede nel mio quartiere. Certo raccogliere informazioni è importante, ma non con l’affannosa inquietudine di voler ammassare dati che al rendiconto si mostrano così contraddittori da aumentare la confusione, ma con quell’attenta disponibilità che consente una permanente apertura.
La seconda osservazione, sentita alla radio, l’ha fatta un professore di economia esperto di cose americane (stavo guidando e non ho potuto segnarmi il nome), il quale sosteneva che la vera molla che ha spinto Trump al successo è stata la capacità di intercettare il sentimento generalizzato — il mood con termine inglese —, l’umore dominante degli americani. Che sarebbe l’insicurezza; insicurezza economica che diventa insicurezza psicologica e quindi sociale. È da qualche tempo che molti osservatori della società contemporanea usano, per descriverne la caratteristica con un sol tratto, questa parola. Essa è il termine astratto che proviene dall’aggettivo “insicuro”: un vocabolo composto e per capirlo bisogna partire dalla fine. “Cura” indica l’osservazione premurosa e preoccupata, che non lascia tranquilli. Il “si” iniziali (si-curo) ha valore disgiuntivo, che distacca opponendosi da quello che viene dopo per cui il se-curus è colui che non ha preoccupazioni opprimenti. Ed infine la particella iniziale “in” nega quanto si è appena detto: l’insicuro è colui che non gode dello stato di assenza di penose difficoltà, è come un marinaio nel mare in tempesta, ben lontano dal porto, per antonomasia, “sicuro”.
Lo sappiamo bene che l’insicurezza s’insinua nella pieghe della nostra quotidianità e soprattutto nei rapporti interpersonali dove la necessità di potersi appoggiare con sicurezza è più acuta. Gli americani — ha detto quell’economista — hanno votato Trump perché la sua figura e il suo progetto politico sembrano offrire maggior sicurezza. Non so (vedi sopra) se sia vero, ma sono certo che il recupero della sicurezza è un processo così intimo, dai passi così delicati, che non può essere demandato ad alcun progetto politico. Il nostro mondo, anche proprio quello vicinissimo, ha immenso bisogno di sicurezza; chi gliela offrirà?