Nelle settimane che hanno preceduto la vittoria di Donald Trump e il rovesciamento improvviso di ogni schema o tavolo politico-economico, erano già iniziate le manovre per una “correzione di consenso” all’interno dell’establishment globalista che Trump ha sconfitto. Stava anzi prendendo forma un vero e proprio “Nuovo Consenso” ha ricordato Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera. In una Washington ancora convinta delle chance di Hillary Clinton, le sessioni autunnali del Fondo monetario internazionale avevano certificato i limiti – se non gli insuccessi – di una lunga fase di stimoli monetari e riaperto la discussione sull’uso delle leve fiscali per accelerare la ripresa. La sfiducia strutturale dentro il mercato (famiglie nel consumo, imprese nell’investimento, risparmi e capitali nel rimettere in moto l’economia) ha finito per corrodere la fiducia nel modello in sé: cioé la credibilità del Washington Consensus libero-mercatista nell’ispirare riequilibri del ciclo senza interventi pubblici.
Ora l’irrompere di una Trumponomics ancora magmatica sembra volersi misurare da subito con il nuovo paradigma: ventilando un trilione di dollari di investimenti infrastrutturali, almeno in parte finanziati dallo Stato, per ridare lavoro all’Uomo Dimenticato nell’America profonda. Uno strappo non previsto e certamente poco condivisibile da parte di economisti e tecnocrati che hanno costruito e gestito in un trentennio il “Vecchio Consenso”: e stavano predisponendone una versione aggiornata, con molta gradualità e non senza difficoltà teoriche e operative nel ripensare ruoli e funzioni delle public policy. Reichlin – dalla sua London School of Economics, custode del pensiero keynesiano – si è subito mostrata scettica: la Trumponomics allo stato nascente appare un keynesismo falsificato, stregonesco, pericoloso. Si mostra spurio su almeno due versanti. Da un lato vorrebbe alzare l’intervento pubblico ma abbassando nel contempo le tasse (con inevitabili impatti twin su deficit e debito federali, e quindi su inflazione e cambio del dollaro). Dall’altro guarderebbe all’utilizzo di sgravi e incentivi fiscali: un’offerta azzardata verso imprenditori che hanno già mostrato indifferenza ad anni di offerta di denaro a tasso zero; e una via che, indicata da un presidente repubblicano, è sempre sospettata di voler favorire chi è già ricco.
Ma addentrarsi nel merito della Trumponomics è prematuro. Su un piano più squisitamente culturale è interessante mettere a fuoco la brusca interruzione del parto di un “Washington Consensus 2.0”: il cauto tentativo di superamento della codificazione thatcherian-reaganiana che trent’anni fa ha dato forma all’ambiente economico cui si è via via adattato l’intero pianeta. La ritirata dello Stato a favore del libertà di mercato sul binario globlizzazione/finanziarizzazione dell’economia: è stato il nucleo di questo Vecchio Consenso, che un’intera élite intellettuale e di governo si è affannata a elaborare e applicare come “soluzione finale”. Ogni uomo è essenzialmente un imprenditore di se stesso e ciò che governi e super-governi possono e devono fare per il bene suo e di tutto è lasciar fare e circolare il più liberamente possibile lui, le sue conoscenze e i capitali che possono creare prodotto, lavoro, sviluppo.
Si è trattato – finora – di un matrice culturale presentata come irreversibile, non ideologica e non contestabile perché razionalmente fondata nelle premesse e nei modelli e verificata nei puntuali “balzi in avanti”: si trattasse della Silicon Valley o dell’Eurozona; della Russia post-sovietica, della Cina post-maoista, perfino dell’Africa post-post-coloniale. Velocità e angolo di convergenza potevano variare: non la “freccia della storia” e il coinvolgimento dell’intera geografia terrestre. Il Consenso ha avuto l’apice della sua legittimazione sotto la presidenza di Bill Clinton a ridosso del Duemila e non era stato minato neppure dall”11 settembre (anzi: il boom immobiliare alimentato con la finanza derivata era parso rafforzare la fiducia sulla versatilità e sull’affidabilità del modello).
Solo l’implosione di Wall Street, nel 2008, ha messo seriamente in crisi il Consenso, che tuttavia è rimasto in piedi, senza l’emergere di reali alternative. A Barack Obama, eletto presidente sulle braci ancora ardenti del crack di Lehman Brothers, in fondo non è mai stato chiesto di modificare il Consenso, semmai di gestirne politicamente la manutenzione, la “riparazione” (la “raffinazione politicamente corretta”). Alla fine del suo doppio mandato era inevitabile l’apertura di una “sessione di bilancio”, ma il copione sembrava peraltro scritto. L’avvento profondamente simbolico di Hillary Clinton alla Casa Bianca avrebbe confermato l’insostituibilità politico-culturale del Vecchio Consenso e garantito una fase di revisione tecnica: la re-inclusione di un po’ di keynesismo (o qualcosa di simile in versione ventunesimo secolo) come superamento dell’espansionismo monetario non avrebbe dovuto mettere radicalmente in discussione il modello. A gestire il parto 2.0 sarebbe stata in continuità la classe dirigente del Vecchio Consenso. Con Trump alla Casa Bianca le “domande d’esame” al Vecchio Consenso diventano improvvisamente vere, in tutta la lolro durezza.
Il sistema finanziario è stato realmente ristrutturato, messo in sicurezza, ridimensionato nelle sue pretese egemoniche e nei suoi eccessi speculativi, ri-orientato verso il finanziamento dell’economia reale? Sulla risposta non c’è affatto consenso. Lo stesso Trump – un immobiliarista di Manhattan – è stato portato al trionfo dlla rabbia di Main Street, ma non è insensibile a Wall Street che lamenta un purgatorio ri-regolatorio troppo lungo e si offre al servizio di Trumponomics a patto di tornare un po’ deregolata (nessun keynesismo appare d’altronde praticabile oggi senza finanza di mercatio, nelle sue elementari formule novecentesche: New Deal in Usa, Piano Marshall in Europa).
Gli stimoli monetari sono stati la corretta risposta all’esigenza di sostegno del ciclo economico dopo il collasso bancario? La risposta è moderatamente positiva negli Usa (dove però gli ondeggiamenti della Fed sul rialzo dei tassi sono eloquenti) e del tutto negativa in Europa: dove lo scontro sulla flessibilità fiscale sta minando le coesione stessa dell’Unione. Molti dubbi però rimangono. Il Quantitative Easing ha funzionato abbastanza bene in America e sostanzialmente male nell’Eurozona perché hanno operato in staffetta e non in parallelo? Quali esiti avrebbe avuto una cooperazione/competizione di stimoli monetari sui due lati dell’Atlantico? O di stimoli fiscali. O stimoli fiscali in Europa versus stimoli monetari in America.
Il Vecchio Consenso, è riuscito a disegnare un “Ordine economico globale” stabile? Quando Margareth Thatcher divenne premier a Londra, la Cina era ancora alle prese con i postumi del maoismo: oggi – grazie anche alla forza del Consenso produce il primo Pil del globo (ed è verso Pechino che il neo-protezionista Trump fa subito la faccia feroce). Dagli choc petroliferi all’Isis, da Al Qaida all’Iran nucleare, il Medio Oriente è rimasto invece un gigantesco punto di resistenza globale a ogni modernità. Il Consenso qui non ha funzionato, forse ha addirittura esasperato contraddizioni e crisi.
Trump sbarca comunque a Washington dando voce a una critica radicale al Washington Consensus tradizionale, Del resto un personaggio agli antipodi come la Regina Elisabetta, aveva posto già nel 2009 una domanda egualmente insidiosa: “Perché nessuno ha previsto e evitato la grande crisi?”. Sette anni dopo, mentre i chierici del Vecchio Consenso stavano affrettandosi a correggerlo, a “migliorarlo”, Trump mostra di volerlo cestinare. Chissà se vorrà o potrà farlo davvero. Chissà su quali principi si potrà realizzare un Consenso veramente Nuovo. E soprattutto: chissà se funzionerà.