Il Financial Times ha fatto irruzione rumorosa nella campagna referendaria italiana: a favore del Sì. Con stile usuale, il quotidiano della City ha prospettato l’apocalisse finanziaria in Italia e forse un colpo mortale all’euro in caso di vittoria del No.
Una ricaduta negativa per l’Italia sui mercati da un rifiuto elettorale delle riforme è nell’ordine del prevedibile: nell’ultimo mese lo spread italiano è già risalito di 50 punti base dalla quota di crociera del 2016. Tuttavia anche la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa – pochissimo probabile alla vigilia – veniva associata a un’alta probabilità di caduta dei listini Usa: dall’8 novembre in poi Wall Street ha invece segnato una sola seduta in ribasso.
Il precedente più significativo riguarda comunque la Gran Bretagna stessa. Cinque mesi fa lo strappo di Brexit (nonostante i polls contrari e l’endorsement di FT per il remain) non ha avuto impatti dirompenti sui mercati. E’ vero invece che Brexit, nell’immediato, sta dando problemi crescenti alla piazza londinese (con l’inizio della fuga delle banche) e all’economia britannica, alle prese con meno Pil, più deficit di bilancio e sterlina più debole. E mentre qualcuno comincia a chiedersi se davvero David Cameron avesse dovuto lasciare, il governo May sta preparando una exit strategy a base di taglio delle tasse per trattenere gli investitori esteri.
L’attrazione di capitali, la fiducia sul sistema-Paese: per il debito pubblico, per le banche in difficoltà, per i piani infrastrutturali, per le imprese. Questo è il punto di contatto – indubbio e importante – fra l’appello per il Sì del Financial Times e quello, ufficiale oltre che trasversale, degli industriali italiani. Questi ultimi vedono nelle riforme istituzionali costruite dal premier Matteo Renzi una condizione fondamentale per ridare competitività all’Azienda-Italia: per far tornare a loro stessi la voglia di investire di sulle loro aziende, per ricreare Pil e occupazione sul territorio nazionale. Uno Stato 2.0, una carta costituzionale che cambia dopo settant’anni, potrebbero accendere la scintilla (economica nell’accezione più ampia) che, dal 2008 in poi, non è mai più scoccata nel Sistema-Paese. Un sistema cui i carburanti non mancano (né i capitali finanziari, né quelli umani) ma mostrano fatica estrema nel miscelarsi.
Da questa prospettiva, sbaglia chi accusa Renzi di miscelare male il suo ruolo di premier e quello di leader del Pd: le riforme istituzionali paiono – non solo a FT – riforme-Paese tout court, non diverse dal Jobs Act. La scommessa di Renzi, piuttosto, è quella di non smuovere la memoria ancora fresca del 2011: quando “i mercati e l’Europa” imposero all’Italia un’austerità tutt’altra che riformista.
A proposito di Italia/Europa e di “sindrome del 2011”: proprio in questi giorni Angela Merkel ha deciso di ricandidarsi nel 2017 come cancelliere, quasi sicuramente della grande coalizione uscente. Lo ha annunciato dopo aver ricevuto idealmente da Barack Obama il testimone della guida della Resistenza Globale al Populismo. E’ curioso, ma non sorprendente, che Merkel e Renzi – dai rapporti spesso conflittuali – si ritrovino negli stessi giorni a combattere una stessa battaglia politica: “Contro gli odi”, ha detto la cancelliera, riferendosi all’ondata xenofoba che sta agitando la Germania. Il premier italiano ha parlato di “accozzaglia” in un paese nel quale è larga la sovrapposizione tra “fronte del No” e pupulismo anti-europeo.
Guardato così, il referendum italiano può assumere la fisionomia inopinata di un nuovo ponte fra l’Italia e l’Europa a guida tedesca, a scavalco sulle polemiche fra Palazzo Chigi e l’eurocrazia Ue pilotata da Jean-Claude Juncker. In fondo Renzi è stato l’ultimo capo di governo europeo a visitare la Casa Bianca di Obama. E se Merkel vuole realizzare nel suo quarto mandato il suo sogno personale di “cancelliera d’Europa”, difficilmente potrà appiattirsi sull’ala rigorista della sua stessa grande coalizione e non potrà non dialogare più di quanto abbia fatto finora con quell’europeo di passaporto italiano che a Francoforte pilota la banca centrale dell’euro.