Il mio amico Kolja scrive su Facebook che si sente un padre snaturato per aver trascinato in piazza Lubjanka i suoi figli, in una gelida giornata moscovita, sotto un fitto nevischio, facendoli rimanere lì quattro ore in coda solo per leggere al microfono il nome di una persona fucilata nel periodo staliniano.
Una lettura di pochi secondi contro un raffreddore quasi assicurato, ne valeva la pena?
Quello della lettura pubblica dei nomi dei fucilati, il 29 ottobre, è ormai un “rito civile” affermatosi in Russia da dieci anni, per ricordare individualmente, anche se purtroppo non tutte una per una, le vittime innocenti del regime totalitario; vittime che ancora oggi qualcuno nomina a denti stretti, mentre si chiudono gli archivi dove sono tenuti i loro elenchi e mentre qualcun altro dice addirittura che quelle vittime innocenti furono giustificate dall’edificazione della potenza sovietica. Incominciato a Mosca, per iniziativa dell’Associazione non governativa Memorial, questo rito si va diffondendo ormai a macchia d’olio in decine di città russe, da Pietroburgo a Ekaterinburg sugli Urali, da Tomsk in Siberia a Gomel’ in Bielorussia.
Un’azione di sapore politico? Sì, per molti è anche un modo per dichiarare il proprio disaccordo con la politica ufficiale; un modo, per altro, molto maturo e civile.
Ma la lettura dei nomi non è soltanto questo; è molto di più e di ben più profondo: qualcosa che va oltre ogni differenza politica. E qui si torna alla domanda del mio amico, se valeva la pena portarci i bambini. Se fosse solamente un gesto politico, dimostrativo, la commemorazione delle vittime lascerebbe poca traccia, o forse lascerebbe una traccia di vago rancore. Il fatto è, però, che siamo di fronte a qualcosa che è molto più grande di un gesto politico; a un’iniziativa civile che nasce dal profondo della memoria personale e collettiva, una memoria mille volte soppressa, manipolata e vilipesa in Russia, ma che riaffiora come un’esigenza autentica.
Questa esigenza si era già manifestata in modo spontaneo nella “personalizzazione” delle celebrazioni della Vittoria del ’45, quando la gente era andata alle manifestazioni ufficiali portando la foto di un parente che aveva combattuto, a significare che a questo trionfo avevano collaborato soprattutto gli oscuri soldatini periti sui campi di battaglia. Era stato un movimento veramente corale, e lo avevano chiamato “reggimento immortale”; ma subito qualcuno aveva suggerito che accanto a questa innumerevole schiera (27 milioni di caduti), c’era un’altra innumerevole schiera fatta dalle vittime dei lager e dai fucilati, e l’aveva battezzata “baracca immortale” (e per baracca s’intende quella dei campi di concentramento).
Due sterminate moltitudini che sarebbe impossibile e assurdo contrapporre l’una all’altra, e che compongono insieme il passato del paese, e il suo popolo più autentico. E ci vuole per tutti il “giorno dei morti”, per i singoli, per le famiglie come per le nazioni: un momento in cui guardare in faccia il dolore, il coraggio, gli errori, le illusioni e la dedizione delle generazioni che ci hanno preceduto, senza cedere alla tentazione di usare questi destini in un senso o nell’altro, per celebrare o per accusare.
Proprio per l’imponenza di questa realtà di morte, la tradizione di leggere pubblicamente i nomi delle vittime dimenticate del comunismo assume inevitabilmente un significato religioso: la sacralità della morte, tanto più quando è una morte di massa, fuori da ogni retorica ci dispone a guardare il presente con un occhio più lucido e rispettoso.
Il passato non può essere cambiato ma il modo di fare memoria sì, in modo da non concepire il ricordo del passato come una guerra, in cui ognuno cancella e maledice la verità degli altri. Questo ci aiuta persino a conoscere meglio noi stessi.
Scrive un altro amico, Viktor: “tenendo conto del silenzio, spesso voluto, sulle vittime, è chiaro che i nipoti e pronipoti non ne conoscono neppure il nome, per cui anche le scarne notizie raccolte dai fascicoli giudiziari possono cambiare in modo radicale la nostra conoscenza della storia di famiglia. La cosa ci può riservare molte sorprese… ma è meglio sapere che non sapere. Così avremo di che ricordare… Io nei fascicoli ho ritrovato mio nonno, e attraverso di lui un altro parente di cui non sapevo nulla. Ora li ho riacquistati e non mi fa paura guardarli. Anche loro sono più in pace se noi li guardiamo, ogni tanto…”.