“Cuba libre” — è l’insegna di un bar all’angolo della via in cui ha sede a Mosca il nostro centro, la Biblioteca dello Spirito; e non più tardi di ieri Literaturnaja gazeta ha dedicato una poesia di sapore carducciano al “comandante Fidel”, invocandolo nei punti caldi di oggi, dal Donbass a Damasco e Aleppo (“che preci mai tutelavano / quel folle da colpi mortali? E chi gridava inshallah, sentiva in risposta no pasaran!”).
Con la morte di Fidel Castro per la Russia si chiude un’intera epoca di miti mai sopiti, neppure all’epoca del crollo dei muri e delle illusioni: per generazioni di sovietici ed ex sovietici continua a restare una leggenda il comandante che portò la rivoluzione alle porte dell’America – una leggenda che dai versi di Evtušenko giunge fino alla canzone “Cuba, amore mio!”. Ma da ormai quasi un anno Cuba è riapparsa all’orizzonte dei russi in tutt’altro contesto: come il luogo dell’incontro epocale del 12 febbraio scorso tra il patriarca Kirill e papa Francesco.
Forse anche per questo, leggendo la notizia della morte di Fidel Castro la prima immagine che mi ha attraversato la mente è stata quella che papa Francesco ha definito “icona” di quanto abbiamo celebrato nell’anno santo, la “misericordia e la misera”, l’incontro tra Cristo e l’adultera.
Non si tratta certo di fare illazioni sui sentimenti personali di fede dell’ultimo leader comunista del XX secolo (anche se i suoi lunghi discorsi sul divino e l’umano lo rendevano un caso anomalo fra tanti politici pragmatici e burocrati ideologici): in questi giorni qualcuno l’ha definito, probabilmente a ragione, “un nazionalista redentore, che si è appropriato di categorie proprie della religione apprese in gioventù e in nome della liberazione nazionale si è sottomesso al peggior imperialismo”.
Eppure, con tutto questo, è difficile negare il provvidenziale ruolo storico che gli è stato affidato e la parabola compiutasi nel “Líder Máximo”, che da una delle bandiere delle ideologie del XX secolo si è trasformato in uno dei simboli di un gesto di amicizia in Cristo lungamente atteso e sognato.
Recentemente il cardinale Jaime Lucas Ortega, arcivescovo emerito dell’Avana, ha ricordato una frase pronunciata da Benedetto XVI dopo la sua visita a Cuba: “La Chiesa deve essere per il dialogo. La Chiesa non è al mondo per cambiare i governi, ma per penetrare con il Vangelo il cuore degli uomini. Questa dovrebbe essere sempre la via della Chiesa”. Benedetto era consapevole di aver potuto visitare Cuba, come prima di lui Giovanni Paolo II, proprio perché la Chiesa locale — sottolinea Ortega — aveva mantenuto una posizione dialogica. Sempre il cardinale Ortega riferisce di aver citato pochi mesi dopo, durante il conclave, queste parole di Ratzinger a Bergoglio, che rispose: “Questa frase di Papa Benedetto sarebbe da mettere su uno striscione all’ingresso di ogni città del mondo”.
Fidel Castro resta un personaggio difficile da rinchiudere entro schemi: se Putin gli ha reso omaggio chiamandolo “amico sincero della Russia”, e definendo la sua Cuba “libera e indipendente” un “esempio di ispirazione per molti Paesi”, alcuni documenti desecretati del Politburo e scoperti dal quotidiano Kommersant mostrano come la storia dei rapporti con l’Urss fosse minata da dissapori e diffidenze, o addirittura segnata da scandali come le dichiarazioni del Líder al giornalista americano Herbert Matthews nel 1967: “I Paesi comunisti come la Russia stanno diventando sempre più capitalisti, sempre più basati su stimoli materiali”.
È impossibile misurare per lui – come del resto per ogni persona, compresa l'”adultera” – quanto il suo cuore sia stato penetrato dal Vangelo. Ma nel racconto di un altro testimone d’eccezione, Joaquín Navarro-Valls, il portavoce di Giovanni Paolo II, recuperiamo le parole con le quali in occasione della storica visita di Wojtyla a Cuba del gennaio 1998 Fidel congedò il papa all’aeroporto: “La ringrazio per tutte le parole che ha detto, anche quelle che mi potrebbero non essere piaciute”. In un certo senso, una tacita risposta alla speranza manifestata da Giovanni Paolo II sul volo verso L’Avana, quando un giornalista gli chiese che cosa si aspettasse dal presidente di Cuba: “Mi aspetto da lui che mi spieghi la sua verità, come uomo, come dirigente e come comandante”.
A distanza di quasi vent’anni da quell’incontro, il sogno ecumenico di papa Wojtyla si è avverato proprio all’Avana nell’incontro tra Kirill e Francesco. Un incontro che non è stato solo un punto d’arrivo: nella coscienza di molti (con maggior chiarezza all’interno della Chiesa e più indistintamente, ma non per questo meno vivamente in ambienti esterni ad essa) costituisce un punto di partenza, la prova che è possibile, realistico, sperare e lavorare perché l’abbraccio e le parole della dichiarazione comune sottoscritta a Cuba prendano carne e si traducano in un cammino comune, in una comune testimonianza di vita. Oggi il nuovo sogno cubano sta lentamente diventando una realtà.