“Signore, abbi pietà di noi”, cantava un gruppo di copti dopo che domenica 25 dei loro fratelli sono stati uccisi vicino alla Cattedrale di San Marco al Cairo. Un altro gruppo intonava gli inni della liturgia: “Offriamo il nostro sangue e la nostra anima per la croce”. A pochi metri di distanza il caos. La polizia raccoglieva tra urla e pianti le macerie e i corpi.
Il sangue dei copti torna a scorrere in Egitto. La Chiesa dei martiri, perseguitata dalle sue origini, torna a essere colpita proprio nel giorno della messa. L’attentato è stato più sanguinoso di quello di Alessandria d’Egitto nel 2011, ancora non del tutto chiarito e che fu tra le cause della caduta di Mubarak.
La Cattedrale di San Marco è protetta da anni da severe misure di sicurezza: ai controlli dell’esercito si sono aggiunti quelli degli stessi copti ortodossi che non permettono l’accesso alle celebrazioni a nessuno che non mostri la croce che tutti i fedeli portano tatuata. La Cattedrale è tuttavia un ampio complesso. Di fronte alla chiesa principale, su un lato c’è la cappella dedicata a San Pietro e San Paolo, residenza del Patriarca, che è stata colpita. Il massacro sarebbe potuto essere più grave se l’esplosione fosse avvenuta alcune ore dopo: è consuetudine, infatti, che dopo la messa le famiglie si riuniscano in un piccolo giardino vicino per pranzare in un ristorante gestito dai copti stessi.
Perché i copti, la maggioranza cristiana più importante e più numerosa del Medio Oriente, continuano a essere colpiti? Gli ultimi sei anni sono stati particolarmente difficili per i figli di San Marco. Mubarak ha sempre limitato pesantemente la loro libertà. Quando si è voluto destabilizzare il rais, i copti sono stati colpiti. Le prime settimane della primavera egiziana del 2011, quando piazza Tahrir era il cuore della rivoluzione, furono piene di speranza: il Corano e la croce tornavano a sollevarsi insieme, come ai tempi del Wafd, come all’inizio del XX secolo, quando si lottò per l’indipendenza. Ma i Fratelli musulmani si appropriarono della rivoluzione e, nel breve periodo in cui Morsi e l’islamismo sono stati al potere (un anno scarso), la persecuzione è stata recrudescente. E quando nel 2013 il popolo si è ribellato a Morsi, i copti divennero bersaglio dell’islamismo e dei Fratelli musulmani: non c’è nulla di più facile per destabilizzare la presidenza di al-Sisi che attaccare qualche cristiano o qualche chiesa. Nel solo agosto 2013, dopo la caduta di Morsi, furono attaccate 200 proprietà cristiane.
La presidenza del generale al-Sisi, con tutti i suoi limiti, è comunque buona per i copti. Personalmente gli ha dimostrato il suo sostegno lo scorso Natale. La Costituzione del 2014 riconosce come non mai i diritti civili e le libertà dei cristiani. Si menziona Maria, il patrimonio dei copti, viene riservata loro una quota di rappresentanza politica nei consigli locali e nel Parlamento.
Nel 2016 è stata approvata una legge che regola una questione rimasta sospesa per decenni: l’autorizzazione a costruire chiese. Fino ad allora, infatti, era in vigore un decreto ottomano del 1856 che richiedeva l’autorizzazione presidenziale. La nuova norma non è la panacea, ma può servire a sbloccare la situazione, dato che serve l’autorizzazione del governatore locale.
A chi dà fastidio questa relativa libertà dei copti sotto al al-Sisi? Dal suo arrivo al potere si conta un attacco al mese. Il massacro di domenica scorsa è un passo ulteriore dell’escalation che è in atto da tempo. Si verificano casi di vessazioni e attentati apparentemente spontanei. Torna il progetto di una pulizia etnica per eliminare la minoranza cristiana del Paese. E nei momenti di debolezza di al-Sisi, un attentato come questo serve a mettere in discussione la sua leadership.