Negli ultimi mesi in Russia c’è stato un “fiorire” di nuovi monumenti abbastanza curiosi: tre a Stalin (nel 2016, ma erano stati otto nel 2015), un monumento a Ivan il Terribile nella città di Orel (il primo in assoluto mai posto in Russia), l’imponente statua al principe Vladimir di Kiev nel centro di Mosca. Apparentemente non c’è un criterio logico in queste scelte, le figure immortalate nel bronzo e nella pietra vanno dal X al XX secolo, e contemplano tutti i regimi e tutte le gesta: dallo zarismo al regime sovietico; dalla cristianizzazione dell’antica Rus alle stragi del XVI e del XX secolo. Lo zar Ivan IV, infatti, era terribile per davvero e mai nessuno in Russia aveva pensato finora di potergli dedicare un monumento; quanto a Stalin, a parte il suo supposto ruolo nella vittoria del 1945 (ma quale poi, se non quello di aver rischiato di far perdere la guerra al suo paese?), ha sulla coscienza parecchi milioni di vittime.

Il fatto è che oggi il passato è diventato terreno politico, a colpi di manuali di storia e di monumenti si lanciano messaggi politici; il filo rosso di questa attività monumentalistica è quasi sempre la grandezza del paese, senza distinguo morali o di valore; ma questa grandezza mette in un solo fascio la conversione al cristianesimo del principe Vladimir di Kiev e la cruenta volontà di potenza di Ivan il Terribile e di Stalin.

Tuttavia questa faccia del paese, così ambigua, che azzera i valori personali e sociali con un relativismo inquietante, non è l’unica. Sotto la coltre del ridondante patriottismo ufficiale oggi in Russia stanno avvenendo processi completamente diversi. È un fermento che si coglie qua e là nella società, sono tante voci diverse di persone qualsiasi che si levano a protestare per i problemi più diversi. Questo fenomeno non è certo incoraggiato o permesso dall’alto, anzi, è piuttosto un’iniziativa personale di gente che si espone senza paura. Lontano e in controtendenza rispetto ai giochi della grande politica e dei suoi signori, lo scopo di questo movimento non è quello di creare “scandali” politici ma di additare, con parole pacate e civili, qualche falsità che è sotto gli occhi di tutti ma che ufficialmente non esiste. 

Questo modo di fare ricorda l’ingenuità del bambino che denuncia la nudità del re. Un caso recente che ha fatto un certo scalpore ha dimostrato quanto può rendere, in termini di mentalità collettiva, l’iniziativa del singolo. Un certo signor Denis Karagodin, di Tomsk in Siberia, pronipote di un contadino fucilato nel 1938, ha deciso di indagare le circostanze della sua morte frugando negli archivi familiari e ufficiali. Ha così ricostruito, per puro interesse personale, la vita del suo bisnonno Stepan e l’ha pubblicata su internet con tanto di fotografie. 

Nel raccontare, Karagodin ha chiamato la fine del bisnonno “omicidio” e non “esecuzione”, l’uso stesso di questa parola “politically uncorrect” ha spostato tutta la vicenda su un altro piano: non è più il sistema che ipocritamente grazia e riabilita “post mortem” le sue vittime, ma è la vittima stessa nella persona del suo erede che giudica il delitto dello Stato e, come lo giudica in maniera politicamente scorretta, così lo giudica fuori dalla politica, a livello personale: era il mio bisnonno, è la mia storia, è una questione della mia coscienza e del mio destino, e mi sta a cuore ritrovare la verità.

Un gesto simbolico senza nessun effetto giuridico, ma a volte i gesti simbolici acquistano una forza più grande dei fatti concreti. La storia di Karagodin ha avuto un successo grandioso in rete ed è circolata per ogni dove. Così un privato cittadino ha lanciato senza volere una nuova parola d’ordine, che raccolta dai lettori ha contribuito a cambiare lo stato d’animo di molti, diventando il primo passo di una piccola rivoluzione culturale, di una nuova coscienza sociale; quasi un fattore politico.

Dopo aver letto il racconto, anche qualcun altro si è sentito toccare il cuore da quella verità e la nipote di uno dei fucilatori ha scritto chiedendo perdono.

E il fatto è potenzialmente enorme, un precedente dal peso imprevedibile perché apre il discorso, assolutamente tabù in Russia come in tanti altri paesi, di una riconciliazione reale che tocca il cuore e, grazie alla verità che ristabilisce la giusta prospettiva sulle cose (gli omicidi sono omicidi e non possono essere giustificati da nessun fine superiore) genera misericordia. Per creare una “memoria inclusiva”, che cioè abbraccia le diverse memorie senza contrapporle, Denis Karagodin ha fatto moltissimo, e tutto da solo.

Di fronte alla tristissima inerzia di chi, non sapendo cosa fare nel presente, cerca ancora un padre-padrone nel passato, queste piccole iniziative civili sono un segno preciso, ci dicono, se non altro, che la società russa non tornerà indietro all’Unione Sovietica. E noi invece siamo ancora qui a contrapporre giustizia e misericordia.