A due settimane dal referendum, che significato può avere ancora l’idea di una società che condivide insieme progetti, vita e aspirazioni di sviluppo? Si può dire che il desiderio di un bene comune abbia ancora un valore concreto e operativo?

Per comprenderlo basta porre una semplice domanda a chi ha vinto: in che modo adesso la vostra vittoria può costruire il bene comune? Quali prospettive si aprono rispetto a una crisi economica e finanziaria epocale, agli impegni europei e internazionali, alla tragedia del terremoto che ha colpito il centro Italia?

La sensazione è che si avverta un grande disagio e un grande vuoto.

Non c’è un “piano B”, non c’è più un progetto di riforma costituzionale (letteralmente scomparso), non c’è nemmeno un’alternativa rispetto al futuro dell’Italia.

C’è piuttosto una sensazione desolante pensando alla processione dei 17 gruppi parlamentari minori e dei 4 maggiori nel rito delle consultazioni per la formazione del nuovo governo. E un Parlamento semivuoto in occasione della fiducia al governo. Alla mancanza di prospettiva dei vincitori si contrappone un desiderio ottuso di rivincita di chi ha perso il referendum, noncurante del bisogno di rinnovamento e sviluppo che ha il Paese. Tutti quanti poi sembrano attratti da elezioni viste come l’ultima sfida all’OK Corral, il decisivo regolamento di conti.

Ma nella realtà c’è un intero Paese che fa capire chiaramente di non poter più sopportare un simile clima politico. Persino commentatori ed editorialisti “famosi” sono usciti dal loro mondo immaginario e sembrano comprendere il dramma di questa divisione violenta.

Da che punto ricomporre un quadro sociale e politico così confuso e concitato? Come tentare di ricostruire? E’ ora di rendersi conto del fallimento di quella scelta fatta venticinque anni fa, per superare una Prima Repubblica raffigurata come tutta basata sul teorema della corruzione. Fatto che fu accertato, per altro, solo in alcuni casi. 

Per rendere i governi più duraturi, si scelse un sistema bipolare rappresentato da “uomini soli al comando” che hanno raccolto consenso con la propaganda favorita solamente da un sistema mediatico che non rappresentava la realtà.

Perché il popolo non potesse intervenire e scegliere, sono stati creati sistemi elettorali in cui i nuovi capi hanno potuto nominare persone che invece di cittadini sono diventati sudditi. Si è infine umiliato il Parlamento, ritenuto non più luogo di confronto costruttivo, ma passaggio obbligato e noioso in cui perdere poco tempo.

In tutto questo, è stata ampliata la portata di scandali giudiziari, spesso rivelatisi vere e proprie montature, per poter dimostrare che solo pochi “eletti” devono occuparsi della Res Publica.

Infine si è favorito un bipolarismo inteso come rissa continua fra parti, scambiando il legittimo compromesso politico virtuoso in un inciucio.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E’ uno strappo che non è stato ricucito, ma continuamente allargato.

Perché questo fallimento epocale? Comodo attribuire la colpa solo alla classe politica. Anche intellettuali e opinionisti che hanno spinto l’acceleratore dell’antipolitica hanno le loro responsabilità. La stessa responsabilità che hanno gli attuali partiti antisistema: non si cambiano le cose sparando contro l’avversario senza avere una forza culturale propositiva.

Chi sa dire quale siano le posizioni del centro destra e del centro sinistra sui temi più importanti? Sull’economia (entrambi supini all’ordoliberismo), sulla scuola (incapaci di dare risposte ai bisogni del sistema), sul welfare (statalismo ormai insostenibile o sistema misto?), su federalismo (tutti incapaci di valorizzare gli enti locali virtuosi e correggere i clientelari), sull’ambiente (balletto tra condoni edilizi e indignazione dopo ogni calamità ma incapaci di una riforma idrogeologica e paesaggistica)? E soprattutto: chi ha in mente un progetto a medio-lungo termine?

La riscossa non è quindi l’antipolitica, bensì un rinnovamento della politica che non nasca dalla contrapposizione preconcetta e dall’occupazione delle istituzioni. 

La speranza che si possa ricominciare a costruire per il bene di tutto il Paese sta quindi in quelle parti politiche disposte a servire il bene comune. E’ questa una posizione culturale tutt’altro che teorica e che infatti potrebbe aprire a delle dinamiche virtuose. Quali? Provo a esemplificarne alcune. 

Primo: il popolo è sovrano e il Parlamento, che lo rappresenta, deve essere luogo di lavoro, discussione e confronto reale. Secondo: la legge elettorale deve evitare innanzitutto i “nominati” e favorire la libera scelta dei cittadini. Terzo: per garantire la governabilità non deve più essere cercato l’uomo solo al comando, ma la collaborazione di più forze che costruiscono soluzioni condivise da corregge opportunamente in Parlamento. Quarto: va assicurata l’indipendenza dei poteri e il loro equilibrio. Quinto: prima del voto è necessario misurarsi su proposte chiare. Sesto: bisogna ricostruire partiti popolari, in contatto continuo con la base della società. Settimo e ultimo, il più importante, riguarda l’impegno verso un ideale di bene per tutti. Senza una passione verso il cuore “urgente di bene”, la partita è persa.