E’ un meridionale del Sud, Giuseppe. Il suo albero genealogico, quello che Matteo evangelista riporta con nomi-e-cognomi nella prima pagina del Vangelo, è una strada infestata di criminali, di prostitute, di tradimenti. La Grazia dovette procedere a zig-zag, come su di una strada interrotta: nessun peccato è stato in grado, però, di arrestare il sacro assalto della misericordia. Nessuna storia, per quanto riguarda crimini e criminali, la potrà un giorno bilanciare: “La genealogia carnale di Gesù è spaventosa. Pochi uomini hanno forse avuto tanti antenati criminali, così criminali. Così carnalmente criminali” (Ch. Péguy). 

Il peccato è una sottrazione della grazia; Giuseppe — in lingua ebraica: “Colui che aggiunge” — è il riparatore di una storia sfliacciata, di una grazia dissipata. Il suo è uno dei quattro mestieri sacri: contadino, muratore, falegname e, appunto, carpentiere. Certamente: esistono i missili che si guidano dal divano, le bombe intelligenti, i carri-armati ultima generazione. Dio quando decide di far la guerra al peccato, però, usa sempre le cose che fanno meno chiasso di tutte: a Gerico le trombe, con Golia bastò Davide, a Nazareth la sorte cadde su Giuseppe. Che, dentro la dinastia, era rimasto l’unico vergine. Di più: “Era un uomo giusto (Mt 1,18-24).

Gli uomini giusti, nella Scrittura, sanno riparare dove tutti intonano la solita litania: “Costa meno comprarne uno nuovo”. Uno sgabello, una storia d’amore: “Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo“. Non esiste bellezza che non conosca complicazione, Giuseppe: “Torna a casa tua, Maria. Vattene in silenzio, che nessuno ti offenda. Ti vorrò bene per tutta la vita”. Licenziarla in segreto: a Giuseppe non importa quanto si vince o quanto si perde. Ad importare, all’uomo giusto, è come si vince e come si perde: lui, da parte sua, rimane un signore anche nell’oscurità più buia. 

Abita la sofferenza di chi, sentendo scorticarsi l’anima, ha scoperto la debolezza della creatura che pensava fosse la migliore. Accetta, anche, d’essere lapidato lui — “Non è uomo uno che reagisce così. Ha infranto la legge, guardate l’adultera” — pur di mettere in protezione la sua Maria. Che, in disparte, attende l’intervento del Cielo: non sarebbe Dio se si scordasse le promesse: “Non temere, Maria“. A Nazareth le era stata data un’avvisaglia: l’annunciazione dell’angelo a Maria. In cantiere, già allora, c’era anche l’annunciazione dell’angelo a lui: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria come tua sposa“. 

Quella di Matteo è la storia di un raddoppio-di-annunciazioni, di doppia consolazione: “Non temere, Maria. Neanche tu, Giuseppe”. Anche per lui varrà la benedizione di Elisabetta a Maria: “Beata te che hai creduto“. Sognare è sporgersi laddove altri hanno affisso un cartello con scritto: “Vietato sporgersi”. Maria, per credere, si è sporta sull’onnipotenza di Dio: materia che non tradisce. Giuseppe, la sua fede l’ha costruita sporgendosi fin sul ciglio della fragilità di una creatura.

Nacque per essere il padre-secondo di Cristo: ci sono alcuni secondi-posti che valgono una vittoria. Poi, con atto di fede, firmò la carriera più imbarazzante che il mondo abbia mai conosciuto: aiutò Cristo a inserirsi-bene dentro il paese di Betlemme, uomo tra gli uomini, cittadino del mondo, soggetto alle leggi dello stato, a quelle di Dio. Tra la grotta di Betlemme e la Croce del Calvario splende la bottega di Nazareth, il domicilio di Giuseppe, di Maria. La prima residenza del Cristo, quella più lunga per numero di stagioni, per silenzio. Trascorse trent’anni fidandosi di loro due che — è quasi un insulto al buon senso — Lo avevano per Figlio e, contemporaneamente, per Padre. La Trinità-di-Nazareh è una storia a lieto fine, grazie a Giuseppe. Ancora oggi l’unico che, senza correre il rischio di esagerare, possa dire d’avere avuto Dio come garzone di bottega: nessuno ha il diritto di comandare se prima non ha imparato ad obbedire. Nemmeno Cristo.