Un Paese cristiano in Medio Oriente: è la soluzione che il quotidiano El Pais ha suggerito dopo la nuova strage di copti al Cairo. Ora che l’accordo Sykes-Picot del 1916 (con cui gli occidentali hanno disegnato i confini della regione) sono saltati in aria, non sarebbe male che i cristiani abbiano un proprio Stato in cui vivere al sicuro. È un’ottima notizia il fatto che il giornale laico di riferimento in Spagna si preoccupi sinceramente per quello che la Segreteria di Stato degli Usa ha definito un genocidio. Tuttavia la soluzione di una “nazione cristiana” non sembra essere conveniente, sia per ragioni geo-strategiche che di vocazione. 



Il caso del Medio Oriente e della persecuzione dei cristiani mostra quanto poco sia opportuno trasformare il cristianesimo in un aggettivo. Non è tempo per stati cristiani, né per partiti cristiani o per scrittori cristiani. Forse nemmeno per la cultura cristiana, o almeno per un certo modo di intenderla. Non è tempo di aggettivi, ma di sostantivi.



La proposta di creare una “nazione cristiana” in Medio Oriente non è un’invenzione giornalistica. È sorta più di dieci anni fa, specialmente tra le comunità irachene in esilio negli Stati Uniti, affinché potessero avere una zona a Ninive (vicino a Mosul) dove rifugiarsi. Nella comunità assira (la seconda comunità cristiana dell’Iraq, meno numerosa di quella caldea) e tra gli evangelici, l’idea ha avuto un certo successo. Gli assiri sono stati gli unici a creare una propria milizia. Lo hanno fatto ignorando gli inviti a integrare coloro che volevano lottare contro l’Isis nelle fila dei peshmerga curdi. I leader cattolici hanno respinto l’idea di uno “Stato cristiano di Ninive”, perché implicherebbe la creazione di un ghetto. Il futuro è ancora incerto, se non altro perché la spartizione della regione tra curdi, milizie sciite ed esercito iracheno è un’incognita.



La “soluzione Kissinger” per il Medio Oriente non sarebbe buona. Il Segretario di Stato americano ha proposto di cambiare l’accordo Sykes-Picot con la creazione di Stati monoconfessionali. La formula potrebbe garantire il futuro di Israele, ma accentuerebbe ancor di più il suo carattere confessionale. Ci vorrebbero anche grandi spostamenti di persone e ci sarebbe sempre il conflitto che c’è dietro a tutte le battaglie che vanno dall’Egitto all’Iran: lo scontro tra sciiti e sunniti. Passeremmo quindi dallo Stato-nazione allo Stato-confessione e la mancanza di pluralità crea radicalizzazione. I grandi sconfitti in questo scenario sarebbero le minoranze.

Per vocazione il cristianesimo non è nato per essere uno Stato: non ha patria per definizione. In quella zona ci sono stati i regni di Edessa e dell’Armenia, ma si tratta di cose del passato. Ora è sempre più chiaro che occorre dare a Cesare quel che è di Cesare. C’è comunque una cosa chiara nella misteriosa missione che hanno i cristiani in Medio Oriente: il ruolo che hanno giocato e giocano nel mondo musulmano. Sono stati e sono una presenza che impedisce all’Islam di chiudersi ermeticamente senza avere riferimenti esterni. 

Tutto questo a un prezzo altissimo, che include il martirio. Se i cristiani abbandonano definitivamente il Medio Oriente o si rinchiudono in un Paese fatto a loro misura, verrebbe ridotta la già scarsa possibilità di superare la fase di fondamentalismo che attanaglia la regione dall’inizio degli anni ’80. I copti egiziani ce l’hanno ben chiaro: non sono una nazione, ma sono Chiesa. Un copto dirà sempre di se stesso che è più egiziano che altro. Rifiuterà sempre il ghetto. 

Nella dura prova che stanno attraversando, molti cristiani del Medio Oriente hanno scoperto che la loro identità non è solamente una tradizione che hanno ricevuto, un’appartenenza più o meno culturale, ma un’ipotesi per vivere il presente, una fede personale. Hanno riscoperto il valore sostantivo, non aggettivo, del cristianesimo. È un altro tesoro che ci arriva dall’Oriente. Non ci sono aggettivi ma sostantivi, non c’è politica cristiana, cultura cristiana, valori cristiani senza soggetto cristiano. E questo soggetto, l’uomo affascinato e attratto da una storia particolare, la storia del presepe che si prolunga nel tempo, è quello che resta sempre nelle difficoltà, quello che si dà sempre per scontato.