Mediaset sotto scalata aggressiva di Vivendi si appella a Governo, Agcom e banche per ottenere difese pubbliche in nome di un supposto interesse nazionale. Un segnale di attenzione è subito giunto dal ministro della Sviluppo economico Carlo Calenda e, in parte, dall’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina. Anche su queste prese di posizione i commentatori si sono divisi, su più di un versante.
Il polo televisivo controllato da Fininvest – viene sottolineato – è una società privata quotata in Borsa. La sua proprietà è divenuta contendibile perché il socio di maggioranza ha liberamente monetizzato una larga parte della sua partecipazione, scendendo sotto il 51 per cento. Lo scalatore Vivendi (pilotato dal finanziere Vincent Bollore’) ha nel frattempo assunto – sul mercato e senza obiezioni di sorta – il controllo di Telecom Italia: un’azienda con profilo di gestore di servizi/interessi pubblici nazionali superiore a quello di un broadcaster commerciale. E Vivendi è subentrata in Telecom al termine di un lungo disimpegno dell’Azienda-Paese, che ha visto susseguirsi, dopo la privatizzazione, la famiglia Agnelli, Roberto Colaninno con la “razza padana” appoggiati dal governo D’Alema, Pirelli e infine Mediobanca e Intesa Sanpaolo assieme al colosso spagnolo Telefonica. Non ultimo, fra gli argomenti critici, è la permanenza di di Mediaset, da oltre un ventennio, in situazione di conflitto d’interesse legato dall’impegno politico di Silvio Berlusconi.
Questo notato, la pretesa di tutela avanzata da Mediaset non appare completamente priva di fondamento. Il duopolio televisivo emerso in Italia fin dagli anni 80 è’ stato via via codificato: e l’intreccio fra situazioni di fatto e interventi regolatori ha visto Mediaset condividere con la Rai una sorta di “servizio pubblico allargato”. Il passo di Vivendi – certamente non concordato con Fininvest – mette in realtà’ in discussione l’intero sistema televisivo italiano, compresa la logica del servizio pubblico.
La pressione del mercato e dell’innovazione tecnologica trent’anni fa ha giocato a favore di Fininvest che – non va dimenticato – si conquistò il ruolo di duopolista dopo aver prevalso sulla concorrenza via via portata dai gruppi Rusconi, Mondadori e Rizzoli. Nella globalizzazione digitale, a essere sotto attacco da parte di Vivendi-Telecom non è solo Mediaset, ma un’intera infrastruttura “tlc & media” costruita, dimensionata e regolata in un’altra epoca.
Sotto questa prospettiva, può essere lecito e perfino doveroso che governo, Parlamento, sistema-Paese si interessino al “caso Mediaset”. La congiuntura politica generale certamente non facilita riflessioni ponderate, tenuto conto del coinvolgimento tuttora pieno di una figura come quella di Berlusconi. Cio’ che invece può’ aiutare è’ l’approdo a Palazzo Chigi di Paolo Gentiloni: ministro delle Comunicazioni nel governo Prodi-2 e autore di un tentativo di riforma del duopolio tv.
Al di là delle indicazioni operative specifiche varate nel 2006 – e solo in parte attuate – il “decreto Gentiloni” muoveva su un orizzonte strategico delineato. Il trasferimento sul digitale di una rete a testa per Rai e Mediaset prefigurava l’apertura del duopolio e l’avvio di un ritiro graduale e paritetico di entrambi i duopolisti. Né era privo di significato il disegno di un percorso di de-statalizzazione della proprietà Rai. Dieci anni dopo quell’approccio – allora parecchio implicito e poi incompiuto – resta sul tavolo: laddove nel frattempo l’industria delle reti e della produzione e distribuzione dei contenuti-media ha conosciuto accelerazioni rivoluzionarie.
Mentre il sistema-Italia si sta drammaticamente interrogando sugli ineliminabili profili di servizio pubblico e di “italianità” dell’intermediazione bancaria e della gestione del risparmio nazionale, può non essere inutile interrogarsi anche sull’opportunità di fermare Bollore’ sul fronte televisivo. Quando Gentiloni era ministro, il premier Prodi bloccò l’ipotesi di ingresso in Telecom di Rupert Murdoch e della sua Sky . Nel 2016 il governo Renzi ha negato all’ex monopolista statale Telecom, passato sotto il controllo di Vivendi, il ruolo di capofila del progetto pubblico-privato di sviluppo della banda larga del Paese (è stata, per ora, preferita Enel). L’Agcom – authority indipendente nazionale – ha già cominciato a prospettare barriere regolamentari alle nuova mosse espansionistica di Vivendi in Italia.
L’Italia può tentare di neutralizzare Bolloré in Mediaset nel breve periodo: ma difficilmente può rinunciare a una vera risposta di politica industriale – a una vera risposta politica tout court. Quest’ultima non può che partire da una riflessione approfondita: cos’è oggi “servizio pubblico”, tutela e promozione degli interessi dei cittadini del Paese nel vasto campo tlc & media, di cui il business televisivo è parte? In che modo è possibile salvaguardare attivamente imprenditori vecchi e nuovi del settore, lavoratori dipendenti e autonomi e soprattutto consumatori di “prodotti televisivi” nel sistema-Paese?
Il piano “Industria 4.0” – forse l’unico capitolo strategico dell’ultima legge di stabilità – non è un pacchetto di sgravi fiscali ai produttori di macchine utensili: è il tentativo di favorire a vasto raggio la digitalizzazione della manifattura italiana (nei diversi ambiti della progettazione, della costruzione, dell’utilizzo di sistemi di produzione avanzati, con attenzione a ricerca e formazione). Il “caso Mediaset” non attiene soltanto al privato e al mercato, come vorrebbe chi lascerebbe volentieri Cologno in pasto alla scalata francese. Ma non può essere un caso “pubblico” solo nel modo in cui lo intendono lo Stato padrone della Rai e Fininvest padrona di Mediaset: duopolisti televisivi indubbiamente invecchiati.