“Poi vidi genti accese in foco d’ira / con pietre un giovinetto ancider, forte / gridando a sé pur: ‘Martira, martira!'”. Siamo nel Purgatorio e Dante è appena entrato nel terzo girone, cioè salito sulla terza rientranza che la gran montagna della penitenza fa per raccogliere le anime purganti un determinato peccato. Da quanto è successo nei gironi precedenti sappiamo che proprio all’ingresso di un nuovo “settore” purgatoriale il poeta pellegrino incontra qualcosa che gli ricorda la virtù esattamente opposta al vizio che lì si espia; l’umiltà — antitetica alla superbia dei penitenti del primo girone — è raffigurata in mirabili bassorilievi così perfetti che le statue sembrano muoversi e persino parlare; l’amore generoso — il contrario dell’invidia crudele — è stato esemplificato, nel secondo cerchio, da voci parlanti simili a un vento che passa e se ne va. Qui invece Dante ha “visioni estatiche” cioè pur continuando a camminare, sebbene un po’ frastornato, vede dentro di sé tre scene. La terza inizia con le parole che ho appena citato. È subito chiaro che la virtù (e reciproco vizio) di cui qui si parlerà è la mansuetudine opposta all’ira che “accende” come il fuoco le “genti” che appaiono in visione al poeta. Il fuoco dell’ira, dell’improvvisa arrabbiatura, produce un fumo acre, denso, quasi pungente in cui — Dante lo vedrà tra poco — soffrono i penitenti di questo girone.
La folla furibonda sta uccidendo a sassate un giovinetto, incitandosi con urla selvagge. È evidente che si sta parlando di santo Stefano; Dante non ha bisogno di citarne il nome, basta il verbo usato della folla: equivale ad un “Uccidiamolo! A morte!”, ma Dante sceglie il verbo che qualifica Stefano, primo testimone (proto-martire) di Cristo fino all’effusione del sangue.
Spostandosi dalla folla urlante per posarsi sul protagonista della scena, lo sguardo di Dante lo coglie nel momento in cui, piegandosi a terra sfinito per i colpi, tiene tuttavia i giovani occhi rivolti al cielo. “E lui vedea chinarsi, per la morte / che l’aggravava già, inver la terra / ma degli occhi facea sempre al ciel porte”. Spettacolare quest’ultima espressione; Dante non dice semplicemente che Stefano guardava in cielo ma che spalancava i propri occhi perché il cielo vi si potesse rovesciare in tutta la sua bellezza. Gli Atti degli apostoli non riferiscono questo particolare del martirio di Stefano, ma narrano che, concluso il suo discorso davanti al sinedrio, Stefano aveva detto: “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”; esattamente a queste parole i sinedriti gridarono forte e, preso il giovane, “lo trascinarono fuori dalla città e si misero a lapidarlo”.
La terzina seguente spiega perché questo esempio introduce al girone degli iracondi: la virtù opposta all’ira non è calma distaccata, ma amore così attivo che giunge al perdono. Dunque Dante vede il giovane che cadendo a terra guarda in alto “orando a l’alto Sire, in tanta guerra, / che perdonasse a’ suoi persecutori”. C’è una “guerra” in corso, Stefano lo sa e Dante lo sottolinea, e ci sarà sempre nella storia dei cristiani; essa si può vincere solo imitando quello che ha fatto il Maestro, che sulla croce chiese all'”alto Sire” per coloro che l’uccidevano la misericordia del perdono. Questo incredibile atteggiamento costituisce il vero testimone (martire), che non ha la faccia triste di chi ci sta perdendo o quella arrabbiata di chi ce l’ha col mondo intero; Stefano, come Dante l’ha visto, muore provocando compassione: “con quello aspetto che pietà disserra”.