Perché l’Italia da uno dei più grandi paesi industriali del mondo è diventata sempre più debole sotto il profilo economico, incapace di uscire da una crisi che sembra non avere fine? I motivi sono certamente diversi, ma tra questi non si può dimenticare la sistematica e irresponsabile distruzione e svendita del suo tessuto industriale provocata dall’ondata di privatizzazioni degli ultimi venticinque anni in tutti i settori, dalle infrastrutture, alle banche, all’alimentare, alla chimica, solo per citarne alcuni. Occorre ricordare che alla fine del 2016, tra le tante operazioni di privatizzazione ce n’è una emblematica: il caso Telecom (dal gennaio scorso l’azienda ha adottato il marchio unificato TIM).
Ricostruiamo un piccolo diario di ciò che è avvenuto.
Telecom Italia era un’azienda ricca, tecnologicamente all’avanguardia e tra i leader nei servizi mobili a livello mondiale, monopolista pubblico della telefonia fissa in Italia, non diversa da altri campioni nazionali europei.
Nel 1997 il governo di Romano Prodi decide di privatizzare Telecom, anzitutto per ottemperare a un diktat della Ue: aprire l’Italia all’euro e favorire la privatizzazione dell’industria di Stato (“l’accordo Andreatta-Van Miert”). Il Tesoro cede interamente in Borsa il controllo di Telecom attraverso un’offerta pubblica di vendita. Il ricavo è di appena 27.000 miliardi di lire, circa 14 miliardi di euro. Nel 1999 il governo D’Alema avalla la “madre di tutte le Opa”, a quell’epoca da 100 mila miliardi di vecchie lire, 50 miliardi di euro.
A lanciare la maxi-Opa su Telecom Italia sono Roberto Colaninno e Chicco Gnutti che guidano la cordata cosiddetta dei “Capitani Coraggiosi” formata da industriali del nord sostenuti da Mediobanca. L’esito dell’operazione è quello di sovraccaricare Telecom di tutti i debiti che erano stati contratti dagli scalatori. Poi la crisi finanziaria si aggrava e il business continua a peggiorare.
Nel frattempo la proprietà di Telecom passa di mano più volte coinvolgendo i grandi nomi della finanza nazionale: Pirelli, Benetton, Mediobanca-Generali, Intesa Sanpaolo, e l’ingresso della spagnola Telefonica.
Nel 2011 si inizia a ragionare se sia possibile o meno vendere la rete fissa allo Stato per abbattere il debito, ma su questa ipotesi il vertice di Telecom si schiera contro.
Nel 2013 ulteriore crisi: i grandi operatori delle telecomunicazioni, incapaci di comprendere i nuovi paradigmi di Internet, subiscono un drastico calo di redditività a vantaggio dei fornitori di servizi quali Google, Yahoo, Facebook, Amazon, eBay.
Telecom perde soldi da anni, produce un margine lordo in calo costante e non riesce a sostenere gli investimenti indispensabili alla sopravvivenza.
Aspiranti acquirenti esteri di Telecom Italia non mancano, ma tutte le trattative falliscono.
Il rapporto debito/ricavi è insostenibile e a fine 2013 il debito Telecom viene dichiarato spazzatura. Serve un intervento urgente di ricapitalizzazione dell’ordine di 3-5 miliardi di euro. Nell’ottobre 2015 il gruppo francese Vivendi si muove sul mercato azionario ordinario della Telecom, fino ad arrivare nel marzo 2016 al 24,9% di possesso diventando il maggior azionista. E pochi mesi dopo la stessa Vivendi è andata all’attacco di Mediaset.
Quale il sugo della storia?
Esisteva una azienda competitiva a livello mondiale a controllo pubblico, una delle poche società italiane ad azionariato diffuso: si è generata una impresa con enormi debiti che solo un investitore straniero ha tentato di salvare. In questo modo però si è sottratto al controllo nazionale un asset fondamentale come le telecomunicazioni e soprattutto la rete che le supporta. Il rischio che il controllo passi a Orange, cioè l’impresa pubblica di telecomunicazioni francesi è altissimo.
Telecom ha perso negli anni decine di migliaia di dipendenti, secondo un calo non fisiologicamente giustificabile solo dai miglioramenti tecnologici. Tutt’ora il risanamento viene fatto con tagli di personale e stipendi a fronte di ricchi premi per azionisti e liquidazioni ai top manager.
Lo sciopero del 13 dicembre 2016 con il 70% di adesioni mostra, fra l’altro, lo scollamento tra lavoratori e azienda.
AGCOM, l’agenzia per le Telecomunicazioni, impone spesso e volentieri vincoli, multe e tariffe. Il “peccato originale” nasce in questo caso dalla privatizzazione stessa: Telecom è rimasta con una struttura monopolistica in un mercato libero obbligata a vendere i servizi “all’ingrosso” agli altri competitor che diventano concorrenti quando si tratta di vendere servizi ai singoli utenti.
Quale la morale allora?
Il liberismo totale europeo, contrario alla presenza dello Stato in economia e alleato non del mercato ma degli accordi sottobanco dei potenti ha prodotto questo “pasticciaccio brutto” mentre in paesi come la Francia produce monopolisti statali tutelati dai governi in settori dove dovrebbe vigere il mercato. In Germania copre banche in crisi come e più di MPS: il caso di Deutsche Bank è clamoroso.
E’ l’ennesimo esempio della necessità di superare una idea di mercato che in teoria esclude la possibilità di un intervento sano dello Stato con i suoi aiuti o con la partecipazione e la gestione di imprese strategiche per poi favorire atteggiamenti pubblici e privati oscuri e clientelari. La sinistra che, per crisi di identità e mediocrità culturale dei suoi politici e dei suoi economisti l’ha sposata in questi 20 anni, non è meno colpevole di una destra che ha semplicemente rinunciato a pensare.
E’ ora di rimediare, uscendo definitivamente allo scoperto e utilizzando davvero la Cassa Depositi e Prestiti come nuova Iri (come era stato annunciato e poi mai fatto) e difendendo anche Finmeccanica, ENI, Enel, eccellenze italiane in mano pubblica. Occorre ricordare che, anche se nell’ultima parte della sua storia l’Iri non è stata certo virtuosa, non ci sarebbe stato lo sviluppo che il nostro Paese ha ottenuto con l’Iri prima maniera. Oggi può e deve avvenire qualcosa di analogo, altrimenti il nostro Paese, che è già avviato su questa strada, sarà preda di una colonizzazione estera che ricorda quella che avveniva nell’800 in Africa e in Asia, mandando definitivamente in “serie B” l’Italia.