Queste giornate di declinante autunno preannunciano l’inverno con un clima – almeno così è a Milano e forse da altre parti – bello e strano. C’è una luce intensa, ma fa anche freddo. Quando ci si sveglia e si muovono i primi abituali passi della giornata è ancora buio, il tempo di prepararsi e quand’è ora di uscire per andare al lavoro il sole è sorto, là dietro i palazzi, e dal cavalcavia che s’innalza un po’ rispetto alle altre strade lo si vede chiarissimo e lontano: non scalda, lo si capisce dalla brina che luccica sulla strada e copre l’erba delle sparute aiuole. A mezzogiorno lascio l’ufficio, dalle cui finestre vedo poco o niente, e prendo l’auto per appuntamenti in giro per la città. La luce è diventata fortissima, il sole non è in alto, ma a mezzo cielo, e se te lo trovi dritto di fronte dopo una curva o se un suo riflesso dalle vetrate di un grattacielo ti colpisce in faccia, sei accecato per qualche secondo e rischi di andare a urtare persone o cose. Quella luce è potente perché dà un risalto insolito a paesaggi urbani consueti: i palazzi vecchi e nuovi, i viali con alberi che si stanno spogliando, la facciata di una chiesa, l’infilata di finestre d’un comunissimo condominio, lo slancio in altezza di un grattacielo. Dal caldo dell’interno dell’auto sembra quasi una giornata estiva. Ma evidentemente non lo è perché la poca gente che c’è in giro a piedi è tutta intabarrata e l’apposito strumento del cruscotto segna che all’esterno i gradi sono solo pochino sopra lo zero.

E poi quella stessa luce è troppo forte, sbalza le cose che illumina in maniera troppo violenta e me le butta in faccia come se gli spigoli fossero lame taglienti, i colori delle macchie troppo accese, gli improvvisi bui perché si attraversa un vicolo dove il sole non arriva degli agguati. Che strano effetto! Chissà come mai? mi chiedo. Ma è chiaro: quella luce non scalda, è buona solo a metà e quella metà, senza l’altra, rischia diventare cattiva.

Antonio Rosmini, il grande sacerdote filosofo dell’ottocento, beatificato da Benedetto XVI nel 2007, ha scritto che “la luce della verità che viene da Dio è semplice, tranquilla, umile, soddisfacente, edificante”. Fantastica sequenza di aggettivi che, per contrasto, mi ha ricordato il tono di tante discussioni (tra conoscenti, sentite per radio o tivù, lette su social o blog) dove non dico la verità (parola fin troppo grossa) ma la semplice e più che legittima opinione è brandita come una spada, è opposta all’altro come un martello, è ringhiata all’interlocutore con astio risentito. È come quella luce troppo forte che non fa piacere perché alla potenza illuminante non accompagna il calore, necessario per vivere tanto quanto la luce. Ed è paradossale perché il risultato di un simile modo aggressivo di porgere le proprie convinzioni sgomenta l’interlocutore attento, gli fa necessariamente pensare che chi gli si rivolge in tal modo abbia convinzioni sbagliate. In questo modo cresce la divisione e, per citare l’ultimo aggettivo di Rosmini, non si edifica la civile convivenza.