La scoperta di non essere buoni

Con la giornata di oggi, Mercoledì delle ceneri, comincia la Quaresima. FEDERICO PICHETTO ne commenta il vero significato, paragonandolo con le affermaizoni di Martin Lutero

Una delle cose più difficili da accettare nella vita di un uomo è la scoperta di non essere buoni. “Io non sono buono”. La tristezza e la drammaticità di questa affermazione portarono Martin Lutero lontano dalla Chiesa perché lo indussero a concepire che era l’umano, la natura umana, ad essere cattiva. In realtà tutta la Tradizione cattolica ci insegna che la nostra natura è sì ferita e segnata dal peccato, ma non distrutta, non corrotta definitivamente. Non c’è giorno in cui non si possa fare esperienza di questa ferita che c’è e che ci accompagna: benché ciascuno si impegni per fare il bene ed essere nella luce, le tenebre si manifestano e ci invadono, distruggendo ogni immagine idealizzata di sé e del proprio gruppo, dei propri amici. 

Se è vero, infatti, che “io non sono buono”, è altrettanto vero che “noi non siamo i buoni”, quindi neppure i giusti né — tanto meno — i migliori. 

Il Mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima, ci richiama con forza a questa consapevolezza restituendoci ciò che noi siamo realmente: cenere, terra tratta dalla terra, polvere. Eppure questa miseria, che in tante occasioni si mostra in noi attraverso pensieri, parole, opere e omissioni, non è la parola definitiva di Dio sull’esistenza. Papa Francesco, nella Bolla di indizione del Giubileo, ci dice che è la Misericordia l’ultimo e definitivo atto con cui Dio ci viene incontro. Noi non siamo buoni, ma siamo amati, siamo sì cenere, ma voluti, certamente polvere, ma destinati all’amore. Ciò che Lutero non poté mai capire fino in fondo è che questo nostro niente è stato ridestato all’Essere, alla Vita, da un Amore totale e gratuito che è realmente capace di cambiarci, di redimerci, se incontra un impercettibile pertugio della nostra libertà. 

Dicendo sì a questo Amore, partecipando alla Chiesa, la vita diventa una strada, un’esperienza di libertà, un fiume che ha per alveo la maternità della Tradizione e per argine l’autorità della Gerarchia. Gli stessi termini di Tradizione e di Gerarchia smettono così di essere nomi di sovrastrutture meramente umane per diventare segni tangibili della Misericordia del Padre. Dio non ci offre l’Amore per poi lasciarci soli, ma continuamente ci fa dono di una storia, di un grembo, in cui la nostra libertà possa crescere e partecipare sempre di più al Cuore di Cristo. È questo il senso profondo dei fioretti che da sempre ci vengono proposti nel tempo quaresimale: non privazioni temporanee fini a se stesse, ma gesti di libertà con cui riappropriarci delle nostre azioni (digiuno), del nostro tempo (preghiera) e del nostro cuore (carità). 

Il fioretto è l’inizio di un cambiamento che si propone di durare per sempre. Non è un caso che una preghiera medioevale usasse come prime parole di un inno di Quaresima l’espressione “Tempus adest floridum”, il tempo che c’è, che ora inizia, è propizio, è decisivo per ridire “sì”, per rispondere ancora una volta alla Grazia di un dono che Dio offre al nostro niente, alla nostra miseria, per essere assunto e salvato. 

Sì, è possibile ricominciare, è possibile una nuova opportunità per me. Non nell’orizzonte dei nostri pensieri o nelle vibrazioni dei nostri sentimenti, ma nella carne di un’appartenenza, di un luogo di peccatori toccati dal Bene e — per questo — irreversibilmente Figli, drammaticamente liberi. È il Mistero della Chiesa, l’unica vera Madre — storicamente ferita ma sempre santa nell’eternità — della nostra povera e fragile umanità.

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