È interessante il modo con cui il papa in questo anno santo della Misericordia ha messo a tema la questione della confessione. È interessante e anche un po’ spiazzante. Se ne è avuta una riprova evidente lunedì quando in Vaticano sono arrivati oltre 700 confessori, provenienti da tutto il mondo, per l’incontro che Francesco ha ribattezzato Missionari della misericordia. In sostanza il papa ha ribaltato l’approccio consueto. E ogni volta, anziché preoccuparsi dei penitenti, si preoccupa dei confessori. In un certo senso si mette dall’altra parte della grata per chiedersi con che cuore e con quale atteggiamenti oggi i sacerdoti guardino al fedele che arriva ad ammettere i suoi peccati e a manifestare il suo pentimento. Per dirla schematicamente, papa Francesco vede nella confessione qualcosa di più grande che il giudizio (che può essere vissuto come uno sbarramento, come una porta chiusa). La confessione, ha detto nel recente libro intervista ad Andrea Tornielli, «è la rappresentazione plastica dell’accoglienza e della misericordia». E poi ha dettagliato: «Mi ha sempre commosso quel gesto delle Chiese orientali, quando il confessore accoglie il penitente mettendogli la stola sulla testa e un braccio attorno alla spalla, come in un abbraccio».



C’è in questo rovesciamento di approccio molto della spiritualità e dell’umanità di papa Francesco. La sua prima preoccupazione è sempre quella di non rischiare di perdere una persona perché quella persona s’è trovata davanti una porta chiusa. E il confessionale in molti casi viene vissuto così. Come uno sbarramento preventivo. Un luogo dove ci vengono impartite delle regole. Un piccolo tribunale a cui ci si sottopone. E non è questione di severità o meno del giudizio. Perché la cosa importante è un’altra: che il penitente abbia l’evidenza di avere davanti a sé «un “canale” della misericordia di Dio».   



Francesco sembra cogliere chiaramente nelle persone un grande bisogno di ricevere questo abbraccio, l’abbraccio della misericordia. È un desiderio che spesso non trova parole o forme per esprimersi. Ma che esce con semplicità e chiarezza allo scoperto nel momento in cui una persona si mette in ginocchio al confessionale. In quel riconoscere la propria povertà c’è un valore che poi le parole esplicitano, ma che conta già enormemente come gesto. Guardando al gesto il papa guarda a questa umanità ferita e a volte ammutolita, «perché non sa come curare queste ferite o crede che non sia proprio possibile curarle». E la guarda con la fiducia che a Dio basta anche il più piccolo pertugio per fare breccia nel cuore di un uomo. Il confessionale è appunto il luogo in cui Dio pazientemente aspetta di cogliere quel pertugio…



Per questo il confessore è quasi chiamato a lasciar fare a Dio. Nel libro intervista Bergoglio ha citato un’omelia dell’allora cardinale Luciani su padre Leopoldo Mandic, le cui spoglie sono state venerate questa settimana a san Pietro insieme a quelle di padre Pio. «Un sacerdote mio amico», raccontava Luciani, «che andava a confessarsi da lui ha detto: “Padre, lei è troppo largo. Io mi confesso volentieri da lei, ma mi pare troppo largo”. E padre Leopoldo: “Ma chi è stato largo, figlio mio? È stato il Signore  a essere largo; mica io sono morto per i suoi peccati, è il Signore che è morto per i peccati. Più largo di così con il ladrone, con gli altri come poteva essere!”». 

Il confessionale come luogo della “larghezza” di Dio: è davvero un’immagine che riempie di gratitudine e che dice del bene che dalla chiesa può venire agli uomini feriti del nostro tempo.