Ci sono tanti momenti di questa visita di papa Francesco in Messico che è difficile dimenticare. Non perché siano stati momenti speciali, ma al contrario perché la normalità si è fatta avanti con le sue imperfezioni e anche con la tranquillità di far la cosa giusta. L’incontro con le famiglie è stato emblematico. La prima coppia uscita a porgere il suo messaggio a Francesco era una coppia sposata civilmente, Humberto e Claudia Gomez, lei con un divorzio e tre figli alle spalle. Una coppia consapevole della propria situazione, comunque grata a Dio e desiderosa dell’abbraccio della Chiesa. Poi è stata la volta di Manuel, ragazzo disabile i cui genitori se ne sono stati in ginocchio per reggere il foglio che avrebbe letto. «Avete visto che immagine è questa?» ha sottolineato il papa. «I genitori in ginocchio accanto al figlio malato. Non dimentichiamo questa immagine!». 



La vita per Francesco parla attraverso lo spettacolo delle sue immagini. Non parla grazie a storie emblematiche ed esemplari. Parla attraverso la meraviglia di una normalità accettata e amata. È questa famiglia viva, magari zoppicante, a volte ferita che il papa indica come esperienza reale e che quindi vede come modello che non ha la pretesa di essere tale. La famiglia che si butta con coraggio nell’agone della vita e non si protegge difensivamente nel proprio benessere («famiglie imbellettate che non sanno di tenerezza né di compassione» le ha definite Francesco). È la famiglia che non teme le rughe lasciate dalla fatica di ogni giorno. Come quell’attrice di cinema latinoamericana di cui Bergoglio non svela il nome ma che lui ricorda per una risposta data a chi le consigliava di ritoccarsi il volto per fare sparire le rughe e continuare così sulla strada del successo. «Queste rughe mi sono costate molto lavoro» disse a chi le suggeriva un intervento di chirurgia plastica, «mi sono costate molto sforzo e molto dolore e una vita piena, nemmeno per sogno ve le lascio toccare: sono le impronte della mia storia». Risposta di un realismo indimenticabile. Commenta il papa: «E continuò ad essere una grande attrice».



Così le rughe e le cicatrici, nella storia di una famiglia sono i segni di una storia vissuta senza formalismi e senza finzioni, perché niente è facile e niente è mai scontato: «Sono tutti i segni della fedeltà di un amore che non sempre è stato facile. L’amore non è facile, non è facile». Quel che rende possibile tutto questo è la tenerezza gratuita di Dio.

Famiglia è la radice di un’altra parola che il papa ha richiamato nel discorso lungo e bellissimo ai vescovi del Messico. È la parola famigliarità. «Il bisogno di famigliarità abita nel cuore di Dio». E poi, con l’attenzione sottile alle parole che lo contraddistingue, il papa  ha ricordato che la Madonna di Guadalupe aveva chiesto per sé una «casetta», cioè una piccola casa in cui «i suoi figli possono sentirsi a suo agio». 



In quel diminutivo è custodita quasi l’identità di un popolo. «I nostri popoli latinoamericani hanno forse bisogno del diminutivo perché altrimenti si sentirebbero perduti». In che senso perduti? Nel senso che solo nello spazio piccolo della casa, dove la ristrettezza fa essere umili e modesti, si sperimenta qualcosa che rende concreta la familiarità di Dio: è la dimensione di prossimità «che si riempie di grandezza onnipotente». 

Nella prossimità poi è più semplice e immediato posare il proprio sguardo sulla “Morenita”, la Madonna meticcia di Guadalupe. «Lei che custodisce lo sguardo di colo che la contemplano, che riflette il volto di coloro che la incontrano». Immagine stupenda, che diventa suggerimento di metodo: «Occorre imparare che c’è qualcosa di irripetibile in ciascuno di coloro che ci guardano alla ricerca di Dio. Tocca a noi non renderci impermeabili a tali sguardi. Custodire in noi ciascuno di loro». Al resto ci pensa quel bisogno di familiarità «che abita nel cuore di Dio».