“Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono”, ha recentemente dichiarato Ezio Bosso, il pianista malato di Sla che si è esibito anche al festival di Sanremo.
La frase introduce il tema dell’essere “diversamente abile” in un mondo in cui la maggior parte delle persone si ritiene “normale” e sta sempre più perdendo il senso della ricchezza della natura umana nella sua interezza, compresi i suoi limiti, più o meno visibili.
Lo scorso 10 febbraio a Vienna le Nazioni Unite hanno ufficialmente riconosciuto il nostro come il Paese europeo leader dell’inclusione sociale, cioè con il maggior numero di studenti disabili che frequentano la scuola nelle classi “normali”: a fronte di 234mila alunni disabili, solo 1800 frequentano scuole speciali. Siamo un’eccezione. Nella gran parte dei Paesi cosiddetti “sviluppati” vige tutt’ora la separazione con apposite “classi speciali”. Ad esempio, in Germania gli studenti disabili sono 480mila di cui 378mila in scuole speciali, mentre nel Regno Unito su 226mila disabili, 99.500 sono quelli inseriti nelle scuole speciali. La legge italiana non le ha mai abolite, ma ha spinto affinché si verificasse un’inclusione di fatto.
Chi ha ragione? Noi o gli altri Paesi, considerati sempre e a priori più civili di noi?
Non si può certo essere in modo ideologico e a priori contro le scuole speciali. La cronica mancanza di fondi che limita l’applicazione della legge relativa agli insegnanti di sostegno e agli assistenti ad personam e la difficoltà oggettiva nella pratica quotidiana fanno si che esse assolvano comunque un ruolo importante. Tuttavia, giustamente per noi sono una eccezione.
Già nella Costituzione del 1948, in particolare negli articoli 3 e 34 sul principio di uguaglianza, si trovano gli antefatti che porteranno nel 1971 alla legge, prima in Europa, per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Nel 1992 viene varata la Legge Quadro 104, che approfondisce ed espande i contenuti della precedente ed è ancora punto di riferimento.
La domanda alla base è: qual è il valore dell’integrazione? Per salvare uno, non si sacrificano gli altri novantanove? Innanzitutto una precisazione. Non ci sono solo i disabili da integrare. Come sottolinea il pedagogista Dario Ianes, c’è da includere in modo individualizzato tutti gli alunni, anche quelli non certificati come disabili, ma caratterizzati da Bisogni Educativi Speciali: disturbi specifici dell’apprendimento, ritardo mentale, disturbi emozionali, del comportamento, differenze culturali e linguistiche, difficoltà familiari. Difficoltà che – aggiunge il pedagogista – in una classe di scuola media, niente affatto atipica, riguarda 12 alunni su 23.
Tutte queste problematiche sono considerate un ostacolo, al massimo da sopportare, perché abbassano le performance dei “normodotati” o “superdotati”.
Il prof. Ianes, però, spiega in modo efficace che il vantaggio dell’inclusione non è solo per i ragazzi più in difficoltà, ma per tutti. Nelle classi che ospitano disabili di diverso tipo, infatti, tutti sono aiutati a capire meglio le varie differenze individuali, ad avvantaggiarsi di scoperte come quelle sulla pluralità dei linguaggi, sul significato del corpo, sulle varie modalità di comunicazione, di pensiero e di apprendimento; a diventare più capaci di osservare con “finezza” e profondità l’intricata complessità umana; a semplificare un concetto o un testo, ad arricchirlo, a motivare, ad usare gli errori come opportunità per apprendere, ad esplorare i limiti e a riconoscere i deficit. I ragazzi che hanno appreso assieme ad un compagno più bisognoso, hanno sicuramente imparato qualcosa in più e avranno avuto più a che fare con insegnanti e compagni che hanno saputo attendere e che hanno saputo “perdere tempo”. Ianes conclude: “L’integrazione non è un peso, da portare più o meno ideologicamente contenti, è invece un vantaggio competitivo per la qualità della scuola”. Il problema è che “quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità”.
Ci scandalizziamo delle pulizie etniche, ma pensiamo che non si possa stare con l’extracomunitario, con quello di una classe sociale diversa, con chi ha una concezione della vita diversa dalla nostra, con chi è debole, povero, vecchio, malato. Pensiamo, nella migliore delle ipotesi, che convivere con il diversamente abile a scuola faccia perdere tempo nel raggiungere la performance scolastica.
Così non si riesce a parlare al cuore inquieto e ferito dei ragazzi e si favorisce alla radice l’abbandono scolastico, così imponente che si potrebbero riempire due stadi di San Siro e mezzo all’anno. Quando invece la diversità è vissuta come normalità, perché il ragazzo è visto per com’è e non per come dovrebbe essere, capita che apparenti disadattati progrediscano nel loro percorsi di crescita.
Un proverbio africano ricordato da papa Francesco dice: “Per educare un figlio ci vuole un villaggio”. Ovvero un luogo fatto di gente normale, cioè ferita nel corpo, nella psiche, nell’anima, nella sua povertà, nei suoi errori, semplicemente determinata dal desiderio inappagabile di bene che va ben oltre i confini di quel luogo. Lo scemo del villaggio che entra nella poverissima casa della famiglia nel film L’albero degli zoccoli, suscitando il riso dei bambini, è in realtà il cuore del villaggio. “E’ Cristo che viene” dice la mamma dei bimbi, educandoli a uno sguardo più profondo.