Umberto Eco appartiene ad un mondo che si è potuto cimentare con un’Italia dello sviluppo indissolubilmente legata alla nascente società dello spettacolo ed a quella che Edgar Morin avrebbe chiamato “l’industria dei sogni”. Umberto Eco non è stato solo un uomo di cultura, ma anche il più diretto ed esplicito analista di una società di massa i cui contenuti transitavano oramai dagli spettacoli cinematografici e televisivi alle canzoni dei festival, al mondo fantastico dei fumetti. In questa cultura Umberto Eco si è mosso con maestria, avendo facile ragione degli schematismi tradizionali che dividevano gli “apocalittici” dagli “integrati”. Ad una sinistra ingessata sui propri stereotipi culturali Umberto Eco ha fatto da vero e proprio mediatore con la nascente società post-moderna, mentre la sua figura rassicurante ha fatto da compagnia ai miei anni giovanili e la sua “bustina di Minerva” all’ultima pagina dell’Espresso, era in realtà la prima ad essere letta. I laici della mia generazione, nauseati dall’insostenibile convenzionalismo della retorica marxista, debbono ad Umberto Eco il loro riavvicinarsi alla cultura, recuperandola come universo di sempre vivace e profonda attualità, di apertura costante sul presente.

Ovviamente Umberto Eco non è stato solamente questo. Per tale strada egli ha anche finito per occupare, in tutta consapevolezza, il ruolo di “intellettuale” a tutto tondo, cioè di colui che esce fuori dalla propria specialità per entrare nel dibattito e nel conflitto politico. In quest’ambito Eco ha esercitato un ruolo da protagonista all’interno della dicotomia che l’intero universo “progressista” ha apparecchiato per il proprio avversario politico-culturale. Da un lato l’Italia democratica, colta e civile, ironica e post-moderna al tempo stesso, dall’altra l’Italia corrotta, utilitarista e senza valori, buona solo per l’avanspettacolo e pronta a bruciare ogni eredità culturale sull’altare dell’utilità pratica e degli interessi di mercato. Esiste veramente una tale dicotomia? Certamente Umberto Eco l’ha fatta apparire del tutto credibile. Nell’Italia divisa in due, egli è stato l’araldo pungente della critica intellettuale antiberlusconiana, utilmente servito dagli spettacolari autogol del fronte opposto per il quale “la cultura non dà pane”. 

Sempre per questa strada Umberto Eco è stato anche l’indiscutibile maestro di una capacità di stare dentro i media, proponendovi i palinsesti di quella che è di fatto diventata la vera cultura dominante. In questo senso il suo fortunatissimo romanzo Il nome della Rosa, insignito di una riduzione cinematografica, è stato capace di “fare cultura” sovrapponendosi per intero su tutte le altre ricostruzioni. Pertanto, recuperando in pieno la tradizione illuministica e la polemica anti-monastica di matrice protestante, il film contribuirà ad alimentare lo stereotipo di un universo religioso segnato da personalità dementi e psicopatiche. Grazie ad una tale riduzione cinematografica e per almeno i tre decenni successivi alla comparsa del film (1986) conventi e monasteri sarebbero rimasti rappresentati dai corridoi bui e oscuri, da comunità dense di personalità ambigue e perverse, rischiarati da poche e rare fulgide luci. 

Il carro dei conflitti politici, carro sul quale Umberto Eco è consapevolmente salito, distribuisce successi ma sancisce anche marginalità e silenzi. Attraverso il filtro del conflitto politico la cultura si irrigidisce, si converte in stereotipo. Eco beneficerà immensamente della sua posizione politica diventando sempre di più l’intellettuale colto, scrittore di romanzi e polemista dell’Espresso, che non l’autore del Trattato di Semiologia: un testo sul quale l’analisi dovrebbe necessariamente essere diversa. Celebriamo quindi con Umberto Eco le vette e i limiti di un’intera cultura nazionale per la quale la possibilità di farsi intendere è transitata per l’esercizio della funzione intellettuale all’interno della polemica politica.

Se invece della dicotomia che Umberto Eco ha contribuito a esplicitare ne fosse emersa un’altra: quella tra verità e rappresentazione, il dibattito nella cultura italiana degli ultimi vent’anni sarebbe stato certamente ben più attraente. Sarebbe stato bello discutere con Eco della possibilità di superare le derive formalistiche dei “processi narrativi” e delle “figure del discorso”. Sarebbe stato utile discutere con lui sulla possibilità della letteratura di tornare ad esplorare il mondo della vita, di dire ciò che accade, di essere maestra dell’esistere. Sarebbe stato bello sentirlo dialogare con Pietro Gibellini per il quale “se accostiamo un testo solo per stilare l’elenco delle figure retoriche o la lista delle sequenze narrative, cosa ci dà quel testo se non noia?” (Cfr. ilsussidiario.net del 18 e del 21 febbraio). 

Un simile dibattito sarebbe stato vitale per riscoprire il ruolo della letteratura, che è poi quello di “un autore che parla a noi, dal suo allora al nostro ora“. Sarebbe stato utile andare oltre le ironie, i calembour, e le “bustine” per affrontare il vero problema della letteratura di ogni epoca, che resta sempre e comunque quello del rapporto con la verità. Ma non è stato realizzabile. Resta allora la possibilità di dialogare con le sue opere, arrivare a leggerle per quello che sono state — e non semplicemente per ciò che hanno rappresentato — man mano che la nebbia delle battaglie politiche, lentamente, riesce a dissolversi.